Dopo 10 anni dalla sua istituzione, dopo una petizione popolare, una direttiva europea, e l’impegno di molte parlamentari, da gennaio del 2022 è entrato in modo strutturale nella legislazione italiana il congedo di paternità obbligatorio. 10 giorni retribuiti al 100% entro 5 mesi dalla nascita dei figli.
Nel 2021, l’hanno utilizzato 155 mila padri lavoratori dipendenti del settore privato, 20000 in più del 2020.
Ma leggendo i dati con attenzione si scopre che nel 2020 i nuovi nati sono stati 404.892. Il 70 per cento di loro hanno un padre dipendente del settore privato. Quindi solo un po’ più della metà dei padri che aveva diritto al congedo obbligatorio ne ha fatto richiesta. Nel settore pubblico d’altra parte non è stata ancora fatta la circolare applicativa per renderlo operativo.
Quindi, nonostante l’obbligatorietà del congedo, metà dei padri non hanno esercitato il loro diritto di cura.
Certo mancano le sanzioni specifiche nel caso di inadempienza. Anche se dovrebbero valere le stesse che valgono per la violazione eventuale del congedo obbligatorio di maternità.
Ma è solo la mancanza di sanzioni la ragione principale del non utilizzo?
Le ragioni in verità sono molte.
Sicuramente è mancata la promozione pubblica dell’informazione.
Che rivela la scarsa convinzione sull’importanza della norma.
Profonde poi sono le radici degli stereotipi di genere.
Basti pensare che durante i 2 anni della pandemia e dello Smart working, nonostante padre e madre abbiano lavorato entrambi in casa, neppure questo ha modificato la distribuzione dei lavori di cura, che anzi per le donne è aumentata.

Cosa devono fare i padri

Ma esiste anche un equivoco di fondo che ha ispirato fin qui politiche poco efficaci, motivate dall’obiettivo sbagliato, anche se con le migliori intenzioni.
Quelle di favorire la conciliazione tra lavoro e cura dei figli. E in più a carico delle sole donne.
Invece no.
L’obiettivo da raggiungere per costruire un paese migliore è la condivisione della cura.
Cambiando dunque il modo di intendere la cura, cambiando il modo di intendere il welfare e cambiando il modo di intendere il rapporto tra vita e lavoro anche nell’impresa.

Ma perché è così importante condividere la cura e in particolare la cura dei figli?
Lo e’ per la crescita equilibrata dei bambini. Lo è perché smantella gli stereotipi di genere che sono all’origine di tutte le discriminazioni: le donne a occuparsi della riproduzione sociale e gli uomini al lavoro. Lo è perché il carico della cura solo sulle spalle delle donne e’ l’ostacolo principale all’aumento dell’occupazione femminile e quindi alla crescita del paese.
In secondo luogo è sempre più importante cambiate la prospettiva del welfare perché è necessario liberarsi dei suoi limiti. Di impostazione culturale, di risorse dedicate, di distribuzione delle risorse tra i vari capitoli. Con il risultato di una rete di protezione sociale non universale, ancorata al mercato del lavoro del 900, quindi costruita sul lavoratore maschio, a tempo indeterminato, della grande impresa. L’assegno unico per i figli è un primo passo nella direzione giusta.
Altrettanto necessario è cambiare la prospettiva delle imprese. Perché maternità e paternità sono competenze, abilità, master che fanno bene anche alla qualità del lavoro e alla performance delle imprese.
Abbiamo bisogno dunque di un cambio di prospettiva che le politiche pubbliche dovrebbero promuovere con grande slancio.
La condivisione paritaria della cura è la leva per realizzarla.

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