Intensa e drammatica, la riflessione di Gianni Cuperlo sui destini del pianeta e sul senso dell’occidente (se un senso tuttora esiste) ci aiuta a capire cosa dovrebbe essere la politica. E cioè non uno squillo di tromba, non una stanca recitazione mnemonica e neppure uno stucchevole vituperio. Ma, semmai, una riflessione sul nostro posto nel mondo e nel tempo. Se fossimo capaci di dedicarci a questo argomento, solo a questo, la politica tornerebbe forse a confortare le persone nell’attimo del loro smarrimento.

S’intende che l’occidente, come nota Cuperlo, è oggi il punto più critico. Noi ci troviamo paradossalmente ad esser vissuti dal resto del mondo secondo due diversi e contraddittori capi d’accusa. Siamo criticati perché veniamo letti dagli “altri” come il luogo del privilegio e insieme come il luogo della decadenza.

Provo a dirlo con parole al limite del semplicismo. C’è una parte di mondo che ci considera come troppo ricchi, troppo forti, troppo moderni, troppo armati e dunque proprio per questo ci vuol male. E c’è un’altra parte che invece ci considera ormai all’estremo opposto: troppo deboli, troppo rinunciatari, troppo rassegnati, troppo in declino. E dunque finisce per volerci male per la ragione opposta.

Questi due modi diversi di raccontarci da fuori sono in parte considerati veri, tutti e due. Ma la loro antinomia sembra consegnarci ora a due destini incrociati. Così l’occidente si vive ancora, sia pure più faticosamente, come la guida del pianeta. Oppure, quasi al contrario, come la fortezza sotto assedio, rintanata in sé stessa. Kiev 2022 e Kabul 2021 sono i due estremi di questo sdoppiamento delle nostre politiche. Gaza 2023, il conflitto di questi giorni, finisce per racchiuderli entrambi nel perimetro di uno stesso dilemma.

Quando c’era il Muro

La caduta del Muro ci aveva illuso a suo tempo che di lì in poi la nostra strada sarebbe stata più facile. Non è andata così, come abbiamo visto. E curiosamente il comunismo, all’atto del suo crollo, ci ha regalato un’altra contraddizione, quella di cui non ci siamo più liberati.

Provo a dirla così: io penso che il socialismo reale a suo tempo facesse molto male ai suoi sudditi, ma facesse molto bene ai suoi avversari. I sudditi ne ricavavano infatti miseria e dispotismo. Ma gli avversari (e cioè noi) di fronte a quella sfida si sentivano per così dire costretti a dare il meglio di sé, a dimostrare di avere più a cuore le sorti dei deboli e degli esclusi, di saper lenire la loro marginalità, di rispondere insomma alla sfida del proprio storico avversario soprattutto in nome dei diritti degli ultimi. In altre parole il comunismo è stata la sferza che ha indotto noi anticomunisti di allora a dare il meglio di noi stessi.

Se vogliamo, è stata questa la sfida della nostra generazione. E quando poi quella sfida si è conclusa con l’archiviazione del socialismo reale noi ci siamo illusi che il nostro compito, di lì in poi, fosse diventato quello di ridurre progressivamente il mondo alla nostra dimensione. Ricordo anni fa una conversazione con l’allora premier spagnolo Aznar che mi spiegava come il grande traguardo della sua (e mia) generazione dovesse essere quello di trapiantare la democrazia laddove essa non aveva ancora messo radici. Era un’idea esagerata, rischiosa, inevitabilmente paternalistica. Un’idea che a un certo punto ci ha portato vicini, sempre più vicini, allo scontro di civiltà. Eppure in quel contesto quell’idea è sembrata per un attimo racchiudere in sé una missione. Per un attimo, uno solo.

Dall’egemonia al declino

Così, trascorso quell’attimo, ci siamo trovati poi ad archiviarne infine anche il sottinteso. Non eravamo più, e non potevamo più essere, la civiltà guida. Il mondo di lì in avanti non poteva che venire restituito al suo policentrismo, anche a rischio di veder traballare i presupposti di un ordine che veniva inevitabilmente disordinato in nome della pluralità delle sue fedi, delle sue culture, dei suoi interessi. E delle sue conseguenti inimicizie, però.

Così ora, archiviata la nostra centralità, il tema non può più essere quello della nostra egemonia. Diventa semmai quello del nostro declino. E se la nostra egemonia è costata cara anche a noi, il nostro declino minaccia di costare molto, molto più caro, e non solo a noi.

Nessuno più ci chiede di mettere ordine nel bailamme planetario. Anzi, fa parte ormai della nostra saggezza il dovere di comprendere che ci aspetta un certo grado di disordine. Ma anche quel “disordine”, chiamiamolo così, può avere un senso se, e solo se, trova il modo di svolgersi dentro una cornice di pacifica convivenza. Cosa della quale la cronache più recenti ci fanno molto più che dubitare.

Il valore della controversia

E qui appunto torno a Cuperlo e alla introspezione che l’occidente è chiamato a fare di sé stesso. E aggiungo una nota, una sola, alle molte che egli ha messo per iscritto. Quella nota, chiamiamola così, riguarda il valore della controversia. Con tutti i nostri difetti, tutti i nostri errori, tutta la nostra confusione, noi siamo infatti, ancora oggi, quella parte di mondo che considera preziosa per sé la disputa che si trova ad ospitare dentro le sue fragili mura.

Quel continuo interrogarci, quella familiarità che abbiamo con la dialettica, quella singolare capacità di trarre una forza misteriosa dai nostri stessi litigi e dissensi, tutto questo è, e resta, il nostro retaggio più prezioso. Per noi che vi siamo abituati, e anche per tutti quelli che in fondo al loro animo pure ne diffidano.

Finché conserveremo questa dannata voglia di discutere fino all’estenuazione dei nostri argomenti e delle nostre discutibili ragioni, l’occidente avrà ancora un senso. E potrà perfino dispiegare a vantaggio del resto del mondo quella sua singolare capacità di accendere anche altrove la lampadina del dubbio e della curiosità.

Per questo sarebbe una gran cosa se anche la politica italiana trovasse prima o poi il modo di discutere di questi temi. Aprire e approfondire una simile discussione sarebbe, questo sì, un atto da veri “patrioti”.

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