Le incertezze del governo in carica sulla nomina del commissario straordinario alla ricostruzione dopo l’eccezionale alluvione in Emilia-Romagna, sono tutte di ordine politico.

C’è chi – le opposizioni di destra nel Consiglio regionale – non vuole veder “premiato” il presidente Stefano Bonaccini, reo di colpe in realtà contraddittorie: si va dall’aver tollerato la “cementificazione” al non aver realizzato le necessarie opere di tutela di un territorio notoriamente fragile.

C’è che difende la scelta, che mostrerebbe un volto del governo imparziale e collaborativo (come dovrebbe avvenire sempre) o per solidarietà di corpo (i colleghi presidenti di centro-destra). L’interessato sembra tenerci, mentre il suo partito, nell’attesa, appare attenuare il suo ruolo di opposizione.

Nessuno sembra occuparsi dell’utilità in sé dello strumento, partendo da ciò che è necessario fare, quali interventi realizzare, con quali priorità e quali modalità. Di commissari straordinari negli ultimi decenni ne abbiamo visti di ogni tipo.

La nomina di un commissario straordinario è stata utilizzata, in generale, per due scopi. Primo: il vero “commissariamento” di un ente, quando questo non è in grado di funzionare o è gravemente inefficace, fino a compromettere interessi pubblici e diritti fondamentali (è il commissariamento per sostituzione, vedi art. 120 della Costituzione).

Secondo: l’attribuzione ad un organo in carica di poteri straordinari, in genere di deroga alle leggi (si pensi ai presidenti commissari al risanamento dei conti in Sanità che hanno poteri che prevalgono su quelli del Consiglio regionale; o agli infiniti casi di Commissari per finalità specifiche, il ponte di Genova, il termovalorizzatore di Roma).

Si sovrappongono di continuo vere emergenze (terremoti, alluvioni, dissesti) a emergenze presunte (il ritardo causato dal codice dei contratti del 2016, l’urgenza di provvedere). Con il Pnrr assurto a monumento dell’amministrazione emergenziale.

Emergenza dilatata

Di questa dilatazione dell’emergenza è stato esempio chiaro il ricorso sistematico (erano i tempi di Bertolaso) alla Protezione civile come deus ex machina che risolve tutti i problemi (per la realizzazione di interventi e di eventi largamente conosciuti e programmabili (mondiali, giubilei, olimpiadi).

La legislazione degli anni 2012/13 ha ricondotto la Protezione civile al suo ruolo di fondo: la prevenzione e gli interventi immediati di soccorso e ripristino, limitando nel tempo la fase di emergenza e l’esercizio dei poteri straordinari.

Dopo l’emergenza, quella vera, si aprono le fasi della ricostruzione (di beni privati e di opere pubbliche) e dell’intervento organico e programmato volto a prevenire (per quanto possibile) il ripetersi di eventi eccezionali. Tanto la prima che la seconda fase richiedono da un lato l’afflusso di risorse finanziarie straordinarie (la solidarietà europea o nazionale), e dall’altro un adeguato coordinamento dell’azione dei diversi soggetti competenti, settoriali (le autorità di bacino, i consorzi di bonifica, le imprese pubbliche) o territoriali (province e comuni).

In un sistema amministrativo necessariamente composito è impensabile un accentramento di compiti di diretta programmazione e progettazione degli interventi in un unico soggetto nazionale, per di più straordinario, per il quale andrebbe creata una struttura amministrativa di supporto, destinata a doppiare le amministrazioni ordinarie e a accentuare il loro impoverimento.

Allo stato spetta il finanziamento degli interventi in leale collaborazione con le regioni interessate, assicurandosi che questi siano efficaci e rapidamente realizzabili. Alla regione spetta la loro programmazione e il coordinamento dell’azione dei soggetti più direttamente operativi (enti di settore, enti locali).

Per questi fini bastano uffici nazionali (magari affidati alla competenza di un ministro, senza l’ennesima “cabina di regia” a palazzo Chigi) e uffici regionali.

Potenziare

Come è noto la gran parte (oltre il 60 per cento) del tempo di realizzazione di un intervento pubblico è assorbito dalle fasi di programmazione (soprattutto per mettere d’accordo diverse amministrazioni sulla loro localizzazione) e di progettazione.

Per la prima non servono poteri commissariali di deroga, ma la definizione, a regime, di un procedimento di localizzazione, con una consultazione che si conclude, in tempi certi, con una decisione finale e conclusiva.

Per la progettazione nessun commissario è in grado di produrre un buon progetto se non dispone di una buona amministrazione, cioè se non dispone delle necessarie competenze tecniche di qualità. A meno che non si ricorra sistematicamente alla progettazione esterna o alla progettazione affidata allo stesso appaltatore. Ma allora perché non potenziare, da subito, le capacità progettuali delle amministrazioni ordinarie, con priorità per autorità di bacino e Province (dotate di funzioni proprie e al servizio dei Comuni)?

Pare giunto il momento di mettere in discussione il modello commissariale, chiarendo finalmente ruoli e responsabilità dello stato e delle autonomie territoriali: sarebbe di grande utilità se lo facesse proprio la regione al centro dello scontro attuale, l’Emilia-Romagna.  

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