Le prime dichiarazioni di Giorgia Meloni da presidente del Consiglio, a partire dalla richiesta della fiducia, sono state improntate a prudenza e apparente consapevolezza degli angusti spazi entro cui si muove la nostra finanza pubblica.

A maggior ragione, però, non si comprende, o forse si comprende benissimo, la volontà di far comunque passare proposte di campagna elettorale che hanno un altissimo costo opportunità in termini di impiego alternativo di risorse in un momento di emergenza energetica e stretta monetaria come questo

Non perdiamo troppo tempo a valutare l’estensione della cosiddetta flat tax degli autonomi oltre la già elevata soglia di 65 mila euro e verso (forse) quella assurda dei 90 mila.

Una misura che, oltre a essere fortemente iniqua in termini orizzontali, cioè a parità di redditi tra autonomi e dipendenti, tende a causare innumerevoli distorsioni e condotte elusive ed evasive in prossimità della soglia massima.

La Relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva 2022 conferma l’abnorme tax gap Irpef (differenza tra le imposte potenziali, calcolate sulla base della contabilità nazionale, e quelle effettivamente versate) di tale regime forfettario.

C’è tuttavia un’altra flat tax che ha assai poco senso, neppure quello di certificare l’erosione fiscale: è la cosiddetta incrementale, sponsorizzata dal partito della premier e che prevede una cedolare secca, probabilmente del 15 per cento, sull’incremento di redditi rispetto al periodo precedente, si ipotizza un triennio.

Non è chiaro a cosa possa servire una misura del genere. Dovrebbe essere una tantum, perché altrimenti affonderebbe in pochi anni il gettito Irpef e farebbe letteralmente sparire la progressività del nostro sistema impositivo.

È stata anche definita enfaticamente come una sorta di “premio di produttività nazionale”. Sappiamo tuttavia che, per i dipendenti, tale premio esiste già ma è legato a limiti di reddito: attualmente, 80 mila lordi annui per fruire della tassazione al 10 per cento su un salario di produttività al massimo di 3.000 euro.

La verità è che questa misura è stata disegnata per fare emergere redditi non dichiarati, in una sorta di tax holiday parziale, per poi tornare allo status quo ante. Ma c’è un aspetto, che questa singolare cedolare non considera: una cosa chiamata inflazione.

I redditi sono espressi a valore nominale. Ipotizziamo che crescano per effetto dell’inflazione anche senza recuperarla integralmente, cioè risolvendosi comunque in una perdita di potere d’acquisto.

Ebbene, questa flat tax andrebbe a tassare blandamente l’aumento dei redditi nominali. Di fatto, si tratterebbe solo di una attenuazione del fiscal drag, cioè dell’aumento di pressione fiscale causata dall’incremento dei redditi nominali in un sistema fiscale progressivo in cui gli scaglioni d’imposta e deduzioni restino immutati.

Si potrebbe dire che una parziale detassazione del drenaggio fiscale è meglio che nulla, ma si potrebbe anche fare di più e di meglio. Per esempio, agganciare all’inflazione scaglioni d’imposta e deduzioni. E ovviamente anche il limite della No Tax area.

Sarebbe una misura di civiltà, non solo fiscale, certamente costosa. Ma politicamente poco visibile rispetto agli effetti speciali di chiamare “flat tax” (o tassa piatta, in ossequio al sovranismo linguistico) l’attenuazione una tantum del fiscal drag o altre dispersioni di soldi pubblici per scollinare il 2023 e prepararsi a nuovi espedienti contabili per l’anno successivo.

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