Le politiche neoliberiste attuate in tutto l’Occidente sin dal 1979 hanno prodotto un notevole aumento delle disuguaglianze, invertendo una tendenza che durava dall’inizio del ventesimo secolo. La simmetria inversa tra diminuzione della pressione fiscale sui redditi alti e molto alti e aumento delle disuguaglianze è molto evidente: la disuguaglianza è in netta diminuzione per tutto il periodo che va dagli anni Venti fino agli anni Ottanta del ventesimo secolo, per riprendere poi a crescere rapidamente. Ciò nonostante, la fase che stiamo vivendo nell’Occidente è uno dei rari momenti nella storia in cui, pur essendoci un aumento evidente delle disparità sociali, non ci sono reazioni apprezzabili da parte delle opinioni pubbliche; in cui, cioè, non ci sono persone che scendono in piazza per protestare contro le politiche neo-liberiste che ne causano l’aggravamento.

Con due sole rilevanti eccezioni: quella, peraltro sporadica e politicamente maldefinita, dei gilets jaunes in Francia; e i Fridays for Future di Greta Thunberg, movimento apprezzabile per il suo entusiasmo ma anch’esso piuttosto malcerto per quanto riguarda le concrete politiche (non solo ambientali, ma anche economiche e finanziarie) che dovrebbero essere adottate per salvare il nostro Pianeta. Salvo questi due casi, per il resto, almeno fino a ora, tutto tace, o quasi.

Credo che questo tratto delle società contemporanee vada spiegato partendo dalla evidente difficoltà collettiva nel capire che cosa effettivamente significhi il neoliberismo. Da un lato questa fallacia cognitiva deriva un’assuefazione ai principi fondamentali della società neoliberista, che nasce da un processo molecolare, quasi indefinibile, giorno dopo giorno, una nuova microfisica del potere comunicativo che porta all’imporsi di una sorta di «pensiero unico».

Una società di mercato

Nelle società neoliberiste, tutto viene ridenominato con il lessico del libero mercato: «senza rendercene conto, senza aver mai deciso di farlo, – ha scritto Michael Sandel – siamo passati dall’avere un’economia di mercato all’essere una società di mercato. La differenza è questa: un’economia di mercato è uno strumento – prezioso ed efficace – per organizzare l’attività produttiva. Una società di mercato è un modo di vivere in cui i valori di mercato penetrano in ogni aspetto dell’attività umana. Un luogo dove le relazioni sociali sono trasformate a immagine del mercato».

Dall’altro lato, la fallacia cognitiva che incanta l’Occidente è un effetto – indiretto ma incisivo – delle modalità attraverso le quali si costruisce l’immaginario collettivo dominante: le produzioni più importanti, quelle che strutturano la mentalità egemonica nella nostra epoca – cioè le storie Disney, il Marvel Cinematic Universe, i fantasy tolkieniani, gran parte delle serie TV – chiedono agli spettatori e alle spettatrici di sottoscrivere un patto narrativo altamente regressivo, nel senso di altamente infantilizzante.

Non si tratta soltanto di accettare volontariamente una temporanea sospensione dell’incredulità per accedere a mondi narrativi che contraddicono ciò che la fisica e l’esperienza ci dicono accada normalmente; si tratta piuttosto di accedere a un immaginario veramente totalitario, che chiede di sospendere permanentemente e automaticamente l’incredulità; cioè che chiede di sospendere in permanenza l’esercizio di ogni spirito critico: altrimenti non si possono seguire storie di gente che vola nel cielo, compie meravigliose imprese, sprezza il pericolo e, ogni volta, salva l’umanità senza morire e quasi senza soffrire.

E così, supereroe dopo supereroe; film mainstream dopo film mainstream; sitcom dopo sitcom; soap dopo soap; meme dopo meme: le resistenze critiche di un numero crescente di persone si polverizzano con la massima facilità, ogni giorno, davanti allo schermo di un computer, di uno smartphone, o della classica televisione.

In cerca di rassicurazione

Tenacemente, gran parte del pubblico preferisce essere rassicurato, dal punto di vista etico e dal punto di vista cognitivo. Preferisce guardare il video che ha il massimo di visualizzazioni («se ce l’ha, sarà buono per forza», a prescindere).

Preferisce uno stucchevole lieto fine, raggiunto da personaggi che hanno lo spessore psicologico di un foglio di carta, piuttosto che seguire (anche) storie che facciano guardare in faccia al dolore, alla sofferenza, alla morte.

Preferisce attraversare strutture già note, invece che affrontare sfide estetiche o concettuali. 

La ricerca del divertimento domina. Ma divertirsi significa guardare da un’altra parte; non voler vedere i problemi; e piuttosto inseguire la loro magica trasformazione in qualcosa d’altro, di confortante, di rassicurante.

È un male, tutto questo? Un pericolo per la stabilità delle istituzioni democratiche? Non credo. Non necessariamente.

Lo stato di passività incoraggiato dalla cultura di massa trova anzi una facile ospitalità nella cornice delle istituzioni democratiche. Si può dire che quella che si sviluppa nel contesto del neoliberismo e della cultura di massa mainstream sia una «spectator democracy»: stiamo lì, a guardare gli eventi, mettiamo un like sotto un video, come mettiamo un like su una scheda elettorale, animati dalla speranza di aver puntato sul padre, o madre, o sorella, o fratello più grande che ci guidi e ci liberi dai guai.

La democrazia dei follower

Ma forse il modello di democrazia nel quale ci siamo inoltrati meriterebbe un’altra e migliore definizione. Forse dovremmo chiamarla una democrazia di followers, popolata di persone che pendono acriticamente dalle labbra dell’opinion maker di turno, come da quelle della influencer più in voga, senza avere la capacità di sviluppare strategie cognitive proprie; anzi, senza nemmeno volerlo.

Da qui, opinioni pubbliche fragili, incapaci di formulare autonomamente un pensiero critico; incapaci di riconoscere cause ed effetti nel disastro sociale prodotto dal neoliberismo; indotte a recitare il mantra «There Is No Alternative», interiorizzato al punto da crederci fermamente, come a un dogma di fede; indotte a pensare che un altro mantra, «bisogna abbassare le tasse», porti a mondi di felicità al solo pronunciarlo.

Purtroppo senza rendersi conto che l’abbassamento delle tasse ha favorito clamorosamente solo pochissimi soggetti, danneggiando (forse irreparabilmente) le strutture sanitarie, educative e assistenziali pubbliche di cui avrebbero il massimo bisogno proprio coloro che non hanno tratto che miseri benefici dal neoliberismo degli ultimi quarant’anni.

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