Il 18 marzo non sarà mai più un giorno qualsiasi. Lo avevamo intuito già nel 2020, quando a Bergamo le vittime del virus erano troppe perché i crematori le potessero accogliere, e per le strade sfilavano gli autocarri militari carichi di bare. Questo giorno adesso ha un nome, è la Giornata nazionale in memoria delle vittime del Covid e il suo primo, mesto, anniversario è stato celebrato da un discorso di Mario Draghi. Il presidente del Consiglio, alla presenza delle istituzioni locali, ha visitato il Cimitero Monumentale di Bergamo e inaugurato il Bosco della Memoria (come lo ha descritto il sindaco Giorgio Gori: «un monumento che respira»). Ha, soprattutto, ricordato le vittime chiamandole per nome.

Con oltre centotremila morti, e il numero dei decessi che ancora non scende sotto i trecento giornalieri, è davvero complesso avere ancora qualcosa di significativo da dire, e l’utilizzo retorico del sentimento è un rischio sempre dietro l’angolo. Questo rischio ieri è stato fugato grazie alla scelta di un linguaggio asciutto ma non distaccato.

Draghi ha affermato che «Ricordare ci aiuta a fare buone scelte per la tutela della salute pubblica e per la salvaguardia del lavoro dei cittadini» e il ricordo si è subito compiuto sotto forma di nomi e di cognomi: il cappellano del carcere di Bergamo, sindaci storici, operatrici e operatori sanitari, forze dell’ordine.

Non si possono elencare centotremila nomi, ma questa è forse la prima volta in cui, nell’ambito di un grande discorso pubblico, si prova a dare un’identità all’enorme capezzale a cui siamo tutti inchiodati (anche chi rifiuta la realtà, anche chi non ci crede).

Quelle elencate sono state definite «figure simbolo della resistenza civile di questa comunità» e, se è vero che le parole sono importanti, è significativo che in quest’ambito non si sia temuto di usare la lungamente vituperata parola “resistenza”.

Addio alla trincea

Colpisce anche il grande assente, ovvero il lessico da trincea. Non c’è traccia di metafore da battaglione, gli eroi e i guerrieri sono stati sostituiti dagli “operatori del bene”. È sparito perfino il cosiddetto “nemico invisibile”, espediente retorico un tempo onnipresente e mai troppo  gradito a chi più di tutti ha subito le conseguenze della pandemia, come hanno spesso sottolineato i comitati dei parenti delle vittime.

«Siamo qui per promettere ai nostri anziani che non accadrà più che le persone fragili non vengano adeguatamente assistite e protette» è stata la prima e più forte delle promesse espresse da Draghi.

Oggi non siamo ancora fuori dall’emergenza e, da dentro il tunnel, non possiamo valutare davvero la bontà e la fattibilità di quanto ci viene assicurato. Possiamo però tenere stretta la consapevolezza che l’intero sistema di assistenza agli anziani, specie se non autosufficienti, era una grossa bolla pronta a scoppiare da ben prima della pandemia.

Possiamo ricordare che ad essere ignorati, anche in questo caso da ben prima della pandemia, non sono stati solo gli anziani ma anche i loro caregiver.

Possiamo infine tenere presente che, ad oggi, il problema dei caregiver non ancora vaccinati è di stretta attualità. Un’ampia parentesi è stata dedicata anche all’impegno per la prosecuzione della campagna vaccinale e alla questione AstraZeneca quando, con sintetica lucidità, si è sottolineato che «La sospensione del vaccino AstraZeneca, attuata lunedì con molti altri Paesi europei, è stata una decisione temporanea e precauzionale».

La funzione del lutto

«Ricostruire senza dimenticare», «liberare le energie», «trasformare i lutti  e le difficoltà in voglia di riscatto, di rigenerazione», in passaggi differenti Draghi sembra cogliere un aspetto essenziale, ovvero la funzione trasformativa del lutto. Sembra anche comprendere come questo non sia un passaggio automatico, ma un percorso accidentato che non può avvenire in presenza di rimozione.

Non possiamo sapere se queste intenzioni tra le righe siano effettive, non sappiamo se passeranno dalla potenza all’atto attraverso azioni concrete.

Quello che sembra essere emerso chiaramente, nelle celebrazioni di ieri, è che non siamo ancora pronti ad affrontare un processo di grande elaborazione del lutto collettiva.

È utile parlarne ed è essenziale riscontrare che anche le istituzioni siano disposte a farlo, ma se l’emergenza non è finita significa che, dolorosamente, il malato simbolico al cui capezzale stiamo tutti (anche chi rifiuta la realtà, anche chi non ci crede) sta ancora morendo. Accadrà, ma per poter davvero liberare le nostre energie avremo bisogno di altro tempo e molta cura.

© Riproduzione riservata