La faglia che attraversava storicamente l’Europa, separando la parte occidentale da quella centro-orientale, sembrava sul punto di colmarsi con il crollo dell’impero sovietico. La rivoluzione di velluto cecoslovacca, che aveva portato sugli altari un dissidente tenace quanto isolato come lo scrittore Václav Havel, suggeriva che i principi democratici e liberali avrebbero informato tutta quell’area. Infatti, anche l’icona della primavera praghese del ’68, Alexander Dubček, per quanto fosse stimato per il suo comportamento nel passato, non incarnava più il futuro.

Era troppo legato alla sua storia di comunista idealista e riformatore per essere in sintonia con i nuovi tempi. Comunque, non tutto era rosa e fiori. L’esecuzione di Nicolae Ceauseșcu e della moglie in circostanze mai chiarite gettava un’ombra sugli esiti della caduta dei regimi comunisti. A ogni modo, a parte il caso rumeno, la transizione in blocco di tanti regimi autoritari avvenne in maniera sostanzialmente pacifica, come nessuno in occidente aveva mai previsto né sperato.

Il primo decennio

Il primo decennio della transizione creò grandi aspettative di consolidamento delle istituzioni democratiche. Tanto che l’Unione europea aprì subito una linea di credito politico verso l’adesione. Basti pensare che in Polonia, dopo i primi governi di Solidarność, il presidente simbolo della riconquistata libertà, Lech Wałęsa, venne sconfitto nel 1995 dall’ex comunista Aleksander Kwaśniewski. Un’alternanza al potere e una riconciliazione con le vecchie élite che forniva le migliori garanzie di consolidamento democratico. Invece, con la vittoria nel 2005 di Lech Kaczyński, leader del partito iper-conservatore Diritto e giustizia (PiS), la Polonia ha innestato la marcia indietro.

I progetti liberticidi degli ultimi anni si accumulano nonostante la resistenza di parte della classe media e della parte più moderna del paese.

Il paese è diviso in due aree ben distinte: nelle ultime elezioni le regioni orientali, prevalentemente rurali, si sono tutte schierate a sostegno del PiS, mentre quelle occidentali, più industrializzate, hanno votato per l’opposizione.

Una divisione che ricorda per certi versi sia la frattura est-ovest della Germania dove gli estremisti di destra e di sinistra proliferano nei vecchi Lander dell’ex Ddr, sia quella interna alla stessa Ucraina dove la Galizia e l’area fino a Kiev ha sempre sostenuto le posizioni più liberali contrariamente a quelle reazionarie o filo russe delle regioni orientali.

Il caso polacco

Questa faglia tra occidente e oriente, attiva all’interno di molti paesi dell’Europa dell’est, si ripresenta anche all’interno dell’Ue. I segnali più preoccupanti vengono oltre che dall’Ungheria, ancora dalla Polonia. Il presidente Mateusz Morawiecki ha di nuovo ribadito, come aveva già fatto all’inizio dell’anno, il suo favore all’introduzione della pena di morte.

Non è rilevante che la maggioranza dei polacchi sia favorevole – 48,3 per cento contro il 46,3 per cento di contrari – secondo un sondaggio condotto da United Surveys per Wirtualna Polska e pubblicato da Europactiv il 18 maggio, bensì che sia il primo ministro a esprimersi in quel modo.

Questo atteggiamento non solo dimostra che i responsabili istituzionali polacchi hanno abdicato al loro compito di educazione civica dei propri cittadini (cosa che spesso e volentieri accade anche da noi, peraltro) ma che sorvolano con sovrano disinteresse alle regole fondamentali dell’Unione europea. Per quanti strappi stiano facendo alle regole di base della convivenza civile e politica nell’Ue, la pena di morte sarebbe dirimente e porrebbe fine all’appartenenza della Polonia al consesso europeo.

Ma, evidentemente, all’attuale dirigenza polacca questo non sembra importare più di tanto. Il loro riferimento primario ormai sono gli Stati Uniti e si sentono così forti della sintonia con quel paese, rinforzata all’ennesima potenza dal loro incondizionato sostegno agli ucraini in guerra, da muoversi senza tener in conto delle regole e dei principi comunitari.

Riemerge per altre strade quella faglia storica che ha distinto lo sviluppo cultural-politico dell’Europa occidentale dal resto del continente, e che si pensava in via di superamento dopo l’89. Invece, le crisi fanno riemergere gli strati profondi delle culture politiche e, laddove non si sono sedimentati i principi democratico-liberali, riaffiorano pulsioni identitarie e illiberali. E l’Unione europea non sembra in grado di gestirle. La guerra in Ucraina ha prodotto anche questo frutto avvelenato: un ulteriore allagamento della frattura tra occidente e oriente.

© Riproduzione riservata