Tutto precipita in una guerra, forse in più guerre se si infiammerà anche il confine nord con il Libano. È inevitabile, dopo il trauma provocato da un massacro che, con termine riduttivo, si è definito barbaro. A conferma che persino il linguaggio è inadatto a definire un tale orrore.

Non è stato un atto di guerra ma una carneficina nichilista, una caccia all’ebreo chiunque esso fosse, un soldato, un anziano, una donna, il ragazzo di un rave party. Con il gusto sadico di uccidere per uccidere e i corpi di morti ammazzati o di prigionieri mostrati come trofeo tra urla belluine di giubilo. Un grumo di Shoah.

Ci vorrà tempo, tanto tempo, per assorbire la ferita profonda. Eppure lo choc dovrà prima o poi lasciare spazio alla ragione, alla possibilità di immaginare un futuro che non sia la guerra endemica, scongiurare, finalmente, il ritorno a un eterno presente di lutti e di disperazione.

Soluzioni diverse

Lo Yom Kippur di cinquant’anni fa, nel suo successivo, lento processo di metabolizzazione, unito alla prima Intifada delle pietre degli anni Ottanta, produsse alfine gli Accordi di Oslo, basati sull’idea originaria dei due popoli per due stati come unica possibilità di pacificazione. Come garanzia per Israele di poter finalmente vivere senza problemi con i vicini ostili. Il processo, dopo un primo periodo incoraggiante, abortì tra diffidenze reciproche, sfociò nella seconda Intifada dei kamikaze, la più sanguinosa, e poi con la guerra del Libano del 2006.

In seguito prevalse l’idea che la perpetuazione dello status quo, di cui è stato campione Benjamin Netanyahu l’assoluto protagonista degli ultimi quindici anni, fosse l’unica prospettiva. Ma nulla resta fermo per sempre, tutto si evolve anche se non sembra.

La soverchiante superiorità militare di Israele aveva indotto a pensare ad altre architetture istituzionali. Lo stato binazionale a supremazia ebraica, ad esempio. Addirittura uno stato ebraico dal Mediterraneo al Giordano, su tutta la Palestina, il sogno biblico del Grande Israele e i palestinesi espulsi nel loro “vero” stato, la Giordania, secondo la propaganda degli ebrei estremisti.

Oppure l’annessione di parti della Cisgiordania occupata. L’irrilevanza militare e politica dei palestinesi permetteva di disegnare scenari alternativi mentre il conflitto israelo-palestinese scoloriva nel disinteresse, sopravanzato da altre emergenze, le primavera arabe, lo scontro sciiti-sunniti, la pazzesca sfida dello stato islamico, infine il conflitto in Ucraina.

Problemi irrisolti

I problemi irrisolti non evaporano, come un fiume carsico riemergono incancreniti. La barbarie perpetrata da Hamas è lo sprofondo nell’incubo di uno Stato che ha come primo obiettivo di poter essere riconosciuto dai confinanti, di poter diventare una nazione “normale”.

E sarà magari un azzardo dirlo oggi che è più forte il rumore delle armi, ma potrebbe tornare d’attualità la soluzione dei due stati. Per venire di nuovo accantonata? I paragoni sono tutti zoppi, non è detto che finirebbe così. Oggi è mutato il quadro.

Alle paci fredde con l’Egitto e la Giordania, Israele può aggiungere i primi vagiti di una collaborazione, basata anche su motivazioni economiche di collaborazione reciproca, con due paesi del Golfo, gli Emirati Arabi e, soprattutto, l’Arabia Saudita, il faro del mondo sunnita.

Sarebbe la fine di un poco splendido isolamento. Perché i vagiti diventino mutuo riconoscimento è chiaro che serve una soluzione alla questione palestinese, altrimenti destinata a diventare un ostacolo per qualunque accordo. Serve una classe dirigente capace di immaginare che l’impossibile può diventare vero, con il coraggio che ebbero un tempo i firmatari di Oslo e l’intelligenza di non ripetere gli errori lungo la strada della loro implementazione.

L’alternativa

Hamas, è evidente, non può essere un interlocutore per un’impresa così lungimirante, nel suo statuto contempla la distruzione dello stato degli ebrei. L’Autorità nazionale palestinese del vecchio e delegittimato Abu Mazen, al momento nemmeno.

E tuttavia è rivolgendosi e dando credibilità agli eredi di Abu Mazen, a quella parte laica dei palestinesi che derivano dal Fatah di Yasser Arafat che si possono costruire con pazienza ponti per approdare finalmente alla soluzione dei due stati, voluta dall’Onu nel lontano 1948 e mai sperimentata.

L’alternativa è uno stato, Israele, perennemente sotto la minaccia del terrorismo e, dall’altra parte, un non-stato che nella precarietà fabbrica terroristi a getto continuo.

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