Negli ultimi due decenni i vertici delle istituzioni europee sono stati occupati da personalità italiane: prima Romano Prodi come presidente della Commissione europea, poi Mario Draghi alla guida della Banca centrale europea. Entrambi sono poi arrivati – per Prodi un ritorno – a Palazzo Chigi. 

Nonostante questi acuti, in Europa e nel mondo la voce dell’Italia è stata flebile.  Il contestato profilo di Silvio Berlusconi – “inadeguato per ruoli di governo” venne definito nel 2001 dall’Economist – l’instabilità dei governi di centro-sinistra, e infine l’irruzione di forze nuove e indecifrabili, se non inquietanti, sul versante della politica estera, hanno mantenuto l’Italia in una posizione marginale. Il tutto senza dimenticare la nostra debolezza finanziaria, unica grande economia sottoposta alle pressioni dei mercati con ovvie conseguenze in termini di sovranità e di autorevolezza.

Dopo le missioni

L’unica azione di respiro, consensuale tra tutte le forze politiche, e congruente con i nostri principi ispiratori di politica estera (approccio multilaterale in sintonia con i nostri alleati per favorire la coesistenza pacifica) , è consistita nella partecipazione alle missioni militari all’estero.

I contingenti italiani nei due teatri più complessi e più conflittuali,  come l’Iraq e l’Afghanistan, hanno introdotto, e poi imposto per la sua efficacia, un metodo diverso rispetto agli standard tradizionali di intervento, vale a dire un  coinvolgimento delle popolazioni locali attraverso iniziative di socializzazione. Mentre all’inizio gli anglo-americani e i loro più stretti alleati irridevano i militari italiani definendoli “social workers”, poi hanno adottato anch’essi le nostre metodiche.

La politica estera italiana ha seguito un approccio da “potenza civile” anche quando ha utilizzato strumenti militari. Il pacifismo, iscritto nella nostra costituzione, non è mai stato smentito, nemmeno quando si sono mandante le truppe in Iraq: basta leggere i dibattiti parlamentari relativi a quella decisione per vedere come tutto venisse avvolto nella retorica della pace.

La congiuntura Draghi

Ora le missioni militari all’estero hanno perso di rilevanza. Il completamento del ritiro dall’Afghanistan e tensioni regionali meno acute hanno depotenziato il peso internazionale di questa nostro peculiare strumento politica estera.

Si ritorna su palcoscenici tradizionali, europei ed atlantici.  E qui, grazie a contingenze favorevoli quali il “ritorno” dell’America e la debolezza franco-tedesca, emersa nell’ultimo Consiglio Europeo con il rigetto della loro proposta di un summit Ue-Russia, si apre uno spazio inedito per l’Italia. Che si riassume nella figura di Mario Draghi, la cui autorevolezza non ha pari oggi nel vecchio continente.

Il presidente del consiglio può far sentire la voce dell’Italia con una forza mai avuta prima.  Il problema semmai riguarda la coerenza delle visioni di politica estera dell’attuale coalizione di governo.

 La Lega costituisce una zavorra. Le amicizie politico-affaristiche di Matteo Salvini con la Russia, l’appartenenza dei leghisti al gruppo dei populisti antieuropei nel parlamento di Strasburgo  e la vicinanza con i sovranisti alla Orbàn, sono tutti carichi che appesantiscono il governo nell’arena internazionale. In certa misura questo vale anche per i Cinque stelle, dove la maturazione del ministro degli Esteri Luigi di Maio, l’efficace azione di pungolo per l’adozione del PNRR da parte di Giuseppe Conte, e la svolta filo-europea del gruppo al parlamento europeo sono però controbilanciate da uscite (di senno) di Beppe Grillo, come la recente apertura di credito verso la Cina. Non per nulla lo scontro in atto nel M5s verte anche sul ruolo privilegiato che il garante vorrebbe riservarsi proprio in politica estera.  

Draghi può proiettare l’Italia a livelli di leadership europea mai nemmeno immaginabili nel passato, ma a condizione di far passare definitivamente e pubblicamente le acque a Strasburgo ai leghisti, e di avere Giuseppe Conte come leader unico e legittimo dei Cinque stelle. In caso contrario il fronte interno rimane troppo incerto e finisce per minare la stessa credibilità del premier (peraltro anch’egli in via acclimatazione con le buone pratiche della politica internazionale: perché un dittatore non può essere un “alleato indispensabile” di una democrazia, semmai un partner occasionale).

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