Italia è l’unico paese Ocse in cui i salari medi, dal 1990 ad oggi, siano diminuiti. Per l’esattezza del 2.9 per cento. Mentre in resto del mondo viaggiava spedito, e per alcuni paesi alla velocità della luce, noi siamo rimasti  fermi, anzi abbiamo fatto un passettino indietro.

In compenso abbiamo progredito nella diseguaglianza dei redditi.  Eppure, per molti anni il dibattito politico non ha affrontato il tema del declino e delle sue conseguenze. Le discussioni del mondo politico apparivano marziane, fuori dalla realtà e dalle preoccupazioni delle persone normali.

Chi ha puntato l’attenzione su un tema reale quanto spinoso come l’immigrazione, lasciato marcire dall’inettitudine e dalla mancanza di strategia (e coraggio) dei governi, ha tratto dividendi elettorali prima impensabili. Che la destra leghista abbia poi condito i suoi messaggi di enfatizzazioni spropositate di alcuni episodi e di vere e proprie falsità non cambia la questione: toccava un nervo sensibile.  

Dall’altra parte della barricata, invece, il Pd e la sinistra sono stati accusati di non sapere cosa vogliono, chi intendono difendere, quali gruppi sociali rappresentare. Certo, il Pd è diventato il partito dei diritti. Una acquisizione lenta, faticosa e incerta a causa della presenza frenante della componente di origine democristiana, ma infine oggi acquisita.

E questo è avvenuto, perché è giusto dare a Cesare ciò che è di Cesare, soprattutto per merito della leadership di Matteo Renzi. Facendosi forte della sua origine politica e della sua fede religiosa, nello scorso decennio ha marginalizzato ogni dissenso sui temi etico-morali.

Ora il Pd è all’avanguardia su questo terreno, e ha al suo fianco il Movimento Cinque stelle, mentre la destra sconta il suo tradizionalismo, a volte tinto di vetero-clericalismo.

Reso omaggio al Pd per questa sua connotazione, rimane però scoperto l’altro fianco, quello del suo posizionamento sul piano socio-economico.  E qui ci soccorre la critica qualificata e pungente di Fabrizio Barca, esposta nel suo libro in dialogo con Fulvio Lorefice, Diseguaglianze, Conflitto, Sviluppo (Donzelli 2021).

Il Partito democratico, come tutti i partiti socialdemocratici – ma a mio avviso con un di più di arretratezza culturale – non ha retto alla prova delle trasformazioni del sistema economico globalizzato.

Il capitalismo finanziario, senza più confini nazionali, senza limiti regolativi, ha imposto le sue regole, imperniate sulla individualizzazione e “commodificazione” di ogni rapporto.

Il neoliberismo della rendita

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Più ancora degli effetti sull’economia e sulla società, il danno maggiore è stato inferto alle relazioni umane, in quanto il criterio di valutazione principe è diventato quello del valore economico (al punto che alcuni economisti hanno preteso di valutare la qualità dei parlamentari sul differenziale di reddito tra prima e dopo l’ingresso parlamento!).

In Italia, poi, «con la svolta neoliberista il merito subisce una torsione patrimonialista» in quanto non è calcolato sulla base dei profitti realizzati quanto sul patrimonio accumulato.

Un basso continuo della storia nazionale, tanto che sembra di rileggere le antiche polemiche dei liberisti (quelli veri) che difendevano il profitto contro la rendita, e che è tornato prepotentemente alla ribalta quando è arrivato al potere il rappresentante più autentico dell’acquisizione di beni senza sviluppo, Silvio Berlusconi. 

Di fronte al paradigma neoliberista in salsa rentier, la sinistra italiana non ha saputo fare altro che cercare di difendere le conquiste sociali dei decenni precedenti combattendo, inevitabilmente, una battaglia di retroguardia.

Assestarsi sulla trincea del welfare, tra l’altro infarcito da una selva di micro-guarentigie per blandire questa o quella categoria, ha impedito di guardare oltre, e di pensare a come promuovere una maggiore giustizia sociale nella società globalizzata.  

Barca ricorda che per modificare in maniera strutturale le nostre società va cambiato paradigma, adottando l’approccio del grande economista Anthony Atkinson: si tratta cioè di intervenire nella fase “pre-redistributiva” del reddito, perché è sterile rincorrere gli effetti distorsivi e perversi di una distribuzione squilibrata delle risorse.

Va intaccato il meccanismo a monte, con una politica che non abbia paura di definirsi “radicale”.  A incominciare da una battaglia culturale per cui, per esempio, il merito in senso lato non si misuri più sui beni posseduti, bensì sull’utilità sociale e sul contributo al benessere comune.

Il nuovo oltre il presente

La sinistra ha perso il coraggio intellettuale di prefigurare il nuovo, limitandosi ad una, plausibilmente migliore, gestione del presente. Del resto non è forse il Pd il vero asse portante del governo Draghi, quello su cui il presidente del Consiglio alla fine sa di poter fare affidamento, il prestatore di credito politico di ultima istanza?

Tuttavia, riconosce anche Barca, qualcosa si muove nella sinistra: circola una nuova sensibilità di fronte alle diseguaglianze, al proliferare di working poor con salari da fame, e alla miriade di occupazioni temporanee e senza futuro.

Vedremo se il Pd avrà la forza, culturale prima che politica, per smontare quei meccanismi che consentono il perdurare di queste ingiustizie.

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