«Arriva il coprifuoco». «L’Italia chiude». «Ecco la stretta». I titoli si rincorrono mentre i contagi crescono e dal vertice di governo trapelano le prime indiscrezioni rispetto ai contenuti del decreto di prossima emanazione.

Tremano i genitori di figli in età scolare, i proprietari di ristoranti e bar, di palestre e centri benessere, i lavoratori della spettacolo. Si tratta solo di anticipazioni. Ma le anticipazioni dei Dpcm – l’abbiamo imparato nel corso della prima ondata – funzionano come strumento di governo, producono effetti destabilizzanti sui comportamenti, alternano percezioni, inducono risposte psicologiche.

Queste conseguenze siamo autorizzati a pensare che non siano casuali. Per settimane, da quando la curva dei contagi ha ricominciato a salire, è risuonato come un mantra il proclama «non ci sarà un nuovo lockdown».

Ora, uno stile di comunicazione fatto di anticipazioni sulle misure restrittive, valutazione delle reazioni, e infine decisione, sembra funzionale a governare, sul piano emozionale (e del consenso), l’inversione di rotta attualmente in corso. Ciò che manca, invece, è chiarezza nella visione politica, al di là della capacità di risposta puntuale alle circostanze che di volta in volta si presentano.

Il timore di una seconda ondata autunnale dell’epidemia circola da maggio, da quanto cioè è cominciato l’allentamento delle misure disposte nella fase 1.

Eppure, mentre si inaugurava la fase di «convivenza con il virus», il prefisso “post” ha cominciato ad accompagnare tutti i discorsi sul Covid-19. Si è diffusa cioè, nel discorso pubblico, la convinzione di trovarsi nel «dopo», di aver scampato il pericolo e di dover pensare alla ricostruzione di condizioni di vita ordinarie. Come se il «prima», l’epidemia, non fosse più attuale.

Non c’è dubbio che, per chi ci governa, questa prospettiva, confortata dalla curva discendente dei contagi nell’estate, risultasse funzionale anche a rassicurare gli attori economici e i mercati. Ma davvero nessuno si aspettava quel che ora sta succedendo? E se se lo aspettavano, perché non hanno operato per rendere strutturali, in chiave preventiva, misure di mitigazione del rischio come il telelavoro in tutti i settori in cui è applicabile, o la riorganizzazione dei tempi e dei trasporti pubblici? Se la riapertura delle scuole ha segnato il traguardo, anche psicologico, del ritorno alla piena socialità, non sarebbe stato utile però, al contempo, lavorare per potenziare strumenti e metodi della didattica a distanza, in vista di possibili necessità di ri-confinamento?

E ancora: i dati Istat segnalano la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, e la Caritas segnala un aumento drammatico delle persone in povertà assoluta, in particolare donne con figli minori. Intanto, però, la forza politica di maggioranza che esprime la ministra per le Pari Opportunità si dice favorevole allo sblocco dei licenziamenti. In vista di cosa? Di una ripresa dell’economia che non è all’orizzonte? O di un allargamento del disagio estremo e della marginalità?

Sembra, insomma, che aver pensato di trovarsi nel «dopo-Covid» abbia impedito finora di cogliere il carattere processuale, non puntuale, dell’evento pandemico. Coglierne il carattere processuale significa rintracciare le condizioni che hanno generato la diffusione della malattia e le sue aspre conseguenze, in primis la devastazione ambientale e le diseguaglianze sociali. Ma significa anche fare di questa comprensione una spinta all’azione, volta sia verso il presente sia verso il futuro. Un presente che non è il dopo ma il «durante» dell’epidemia; e un futuro da costruire, anche nella consapevolezza di possibili nuove catastrofi.

Dovrebbe insomma, il governo, fare come insegnava Machiavelli di fronte alla «fortuna», cioè davanti a tutto ciò che non è nel controllo della volontà umana. La fortuna, scriveva, è come uno di quei «fiumi rovinosi», che nella piena allagano le pianure, distruggendo alberi ed edifici, non lasciando a nessuno la possibilità di opporsi. Ma è qui che può intervenire l’agire umano, in particolare il potere politico: «quando sono tempi quieti», può «fare provvedimenti, e con ripari e argini», in modo che, al sopravvenire della piena dei fiumi, «l’impeto loro non sarebbe né si licenzioso né si dannoso». Quel potere «che si appoggia tutto in sulla fortuna», è destinato alla rovina. Non così, quello capace di visione, anzi di pre-visione, di un futuro che è già presente.

© Riproduzione riservata