Le sentenze si possono commentare e discutere, fa parte della fisiologia dialettica della democrazia liberale. Lo stesso vale per fatti storici che possono avere interpretazioni anche radicalmente diverse. Ciò non toglie che le opinioni espresse, come nel caso della strage di Bologna, possano creare degli imbarazzi a chi governa.

Le dichiarazioni di Marcello De Angelis sollevano un problema più interno alla maggioranza, e a Fratelli d’Italia, che al dibattito pubblico del paese. Il problema è quello già emerso nelle vicende e nelle dichiarazioni di molti ministri del partito di Giorgia Meloni: l’inopportunità di esternazioni e comportamenti che arrecano più danni che vantaggi al governo e alla presidente del Consiglio.

Nel caso De Angelis c’è inoltre un elemento più profondo e cioè il legame della parte più antica e militante del partito con gli anni di piombo. Il comportamento, discutibile e sanzionabile anche da destra, di De Angelis è, come spesso accade in politica, una questione di forma. Se si fosse limitato a esprimere dubbi sulla verità processuale si sarebbe allineato all’opinione di molti che hanno idee politiche diverse dalle sue.

Invece De Angelis sostiene addirittura di sapere con sicurezza che i neofascisti non c’entrino nulla con la strage di Bologna. Quasi a voler rimarcare una identità, un collegamento con quell’epoca e quei gruppi, a rivendicare un passato che va difeso nel presente a ogni costo. E questo, di fronte a quella tragedia e agli oltre quarant’anni di distanza, non può che creare un problema politico alla giunta della regione Lazio e alla premier.

L’obbligo del silenzio

Queste polemiche a mezzo stampa sicuramente non toglieranno un decimale di consenso a Fratelli d’Italia, ma lasciano trapelare l’idea che ci sia un conto ancora aperto col passato da parte della nuova destra. Così nuova da non riuscire a chiudere con la vecchia destra.

Da Ignazio La Russa ad Adolfo Urso, da Francesco Lollobrigida a De Angelis c’è una parte del più grande partito d’Italia e di governo che su alcune questioni non riesce ad adeguarsi alla modernità. Le rivendicazioni storiche, le pretese ambiziose sull’egemonia culturale e i complessi di inferiorità della sinistra, le vecchie battaglie pregne di retorica nazionalista contro le multinazionali, gli atteggiamenti da arci-italiani caricaturali sono oggi i peggiori avversari di Meloni e della destra di governo.

La presidente del Consiglio è messa in difficoltà dagli uomini che l’hanno cresciuta sul piano politico e di essi non riesce e, forse, non può liberarsene insieme alle vecchie scorie missine che da questi promanano. Pertanto Meloni è costretta a trincerarsi nel silenzio, a buttare acqua sul fuoco, a far correggere la rotta in pubblico.

Legami

Dopo nove mesi di governo la maggioranza continua a camminare su un crinale che da un lato è presentabile, legittimato, ragionevole, europeo e dall’altro è ricolmo di dichiarazioni goffe, caricature, legami con un passato quantomeno discutibile.

Questa debolezza non va sottovalutata non tanto per le ripercussioni politiche ed elettorali, che nel breve non ci saranno, ma perché personaggi troppo prigionieri del passato e tanto smaniosi di apparire, prendere, nominare, rappresentano un rischio di fronte alle attività ordinarie di un governo: decidere, amministrare, risolvere crisi.

Si comprendono le ragioni di Meloni nel dover pagare dazio al passato, ma per quanto? Per quanto tempo preservare con imbarazzo una parte di classe politica palesemente non all’altezza delle istituzioni che rappresenta?

È una domanda che le nuove leve di Fratelli d’Italia e il movimento intellettuale che aspira al conservatorismo intorno al partito devono porsi. Ma soprattutto è Meloni che deve dare una risposta prima che, tra uno scandalo economico e una dichiarazione maldestra, siano i suoi a trascinarla in fondo molto prima di tutto il resto.

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