Leggendo l’ultima puntata della rubrica “Genitori e figli” che Letizia Pezzali tiene su queste stesse pagine, mi sono ricordato che non ho iscritto mia figlia a nessuna attività extrascolastica per l’anno prossimo, quando entrerà alle elementari. Ora sto consultando pagine e pagine su internet per trovare qualche idea, realizzando che qui a Parigi per molte cose le iscrizioni sono già chiuse. Come dice giustamente la scrittrice, le attività che scegliamo per i nostri figli, talvolta assieme ai nostri figli, sono piccoli tasselli di quello che diventeranno; e fintanto che loro non hanno le idee chiare abbiamo il privilegio e la responsabilità di scegliere per loro. In effetti ci sono vari parametri da tenere in considerazione. Quest’attività piacerà a mia figlia? Svilupperà qualche suo talento o potenzialità? La porterà a frequentare persone interessanti? E poi ci sono le questioni di tipo pratico: quanto costa, quanto è lontano da casa, gli orari sono compatibili, non dovemmo mica svegliarci alle sei del mattino ogni domenica per fare qualche torneo?

A sei anni si comincia a poter fare molte cose: sport di squadra, arti marziali, danza, musica, teatro, e avendone la possibilità anche cose più originali dall’arrampicata all’equitazione. 

Alcune tendiamo a escluderle direttamente per ragioni di budget: che senso avrebbe insegnarle il tennis per poi vincolarla a uno sport borghese che non potrà permettersi di praticare? Oltretutto non potrei giocare con lei perché sono una pippa. Ma ora che ci penso sono una pippa in tutti gli sport di squadra, quindi mi sa che dovrà cavarsela da sola.

Brutti ricordi

Personalmente ho un pessimo ricordo della maggior parte delle attività extrascolastiche che ho frequentato, sempre controvoglia. Mi annoiava la lezione di pianoforte, alla lezione di basket pregavo di stare in panchina e non giocare, alla lezione di tennis non ho nemmeno fatto lo sforzo d’imparare le regole del gioco: colpivo la palla a casaccio.

A dodici anni ho chiesto a mia madre di fare calcio, incuriosito da quello sport che avevo scoperto in tv con Usa 1994, ma ho cambiato idea il primo giorno dopo aver constatato l’umore degli spogliatoi. Non è andato meglio il corso di scacchi, dove perdevo sistematicamente tutte le partite, per sostanziale disinteresse. 

Anno dopo anno, le abbiamo provate tutte. Di tutta evidenza preferivo starmene a casa a leggere i miei fumetti. Se ci fosse stato un torneo italiano per riconoscere a colpo d’occhio il tratto dei disegnatori Disney, quello probabilmente lo avrei vinto. Sfortunatamente nascevo con un talento del tutto inutile.

Non ho avuto particolari esperienze traumatiche nella mia infanzia, quindi non ci vuole molto a concludere che i ricordi più brutti li associo a queste attività che mi venivano imposte, che si trattasse di mia madre o dell’amichetto che veniva a citofonare per dirmi «andiamo a giocare a pallone?», mentre leggevo L’inferno di Topolino. Comprensibilmente vorrei risparmiare a mia figlia esperienze ugualmente spiacevoli, ma anche evitare che mi segua sul cammino dell’asocialità.

Palestra di socialità

Le attività extrascolastiche sono, di tutta evidenza, una palestra di socialità. L’inferno sono gli altri, ha probabilmente ragione Sartre, ma a un certo punto con quell’inferno bisogna scontrarsi e misurarne la temperatura.

Gli sport di squadra costituiscono la palestra di socialità per eccellenza, dove imparare la cooperazione e la competizione. Ovvero cose che ritroveremo più avanti nel mondo del lavoro, e che una compiuta socializzazione dovrebbe permetterci di mediare. 

Eppure talvolta pare che lo sport non sia la società “in piccolo”, cioè attenuata e ridotta in forma inoffensiva, ma la società al suo massimo grado di accumulazione, un contesto in cui tutto appare accentuato all’inverosimile: la posta in gioco è sempre altissima, le aspettative stellari, le tensioni accese, l’adrenalina a mille.

Basta osservare gli adulti nel pubblico, colti dal più bieco invasamento per incoraggiare i propri figli, mossi dal puro istinto di fare prevalere la stirpe. Più che un’introduzione propedeutica all’inferno degli altri, lo sport giovanile assomiglia di più a un tuffo improvviso nelle fiamme più alte. Come evitare, dunque, irrimediabili scottature?

Per ora non ho soluzioni, ma ho almeno una fortuna: non ho dimenticato. Così quando vedrò mia figlia la sera non penserò ingenuamente che sia tornata da una giornata spensierata; bensì che di giorno in giorno, di attività extrascolastica in attività extrascolastica, stia facendo la più faticosa delle esperienze normali, quella di crescere.

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