Se è vero che la storia non finisce mai, è anche vero che vi sono cesure e sconvolgimenti che ne cambiano il corso, come se essa dovesse davvero ricominciare. Oggi ci troviamo in uno di quei momenti, incappati come siamo in uno di quei tagli netti tra un prima e un dopo.

Gli storici scriveranno del 2020 come dell’anno del Covid-19 che ricorderanno come la (prima) grande pandemia del XXI secolo. Mentre noi ci guardiamo ancora intorno, contando contagiati e deceduti, è però vero che quello che ormai appare come un accadimento storico è qualcosa che fino a poco tempo fa gli studiosi non avrebbero considerato tale.

Quante sono state le epidemie – e finanche le pandemie – nel passato? Eppure, di quante di esse si è tenuta memoria nel definire le epoche, i grandi momenti di passaggio e gli eventi fondamentali della storia?

Dimenticare le pandemie

Fino a qualche tempo fa, solo la storia della medicina, della demografia – o quella che oggi va sotto il nome di global history – avevano avuto il merito di ricordarci della peste bubbonica del 1348 o dell’influenza “spagnola” del 1918-19.

Solo la letteratura – Boccaccio, Defoe, Manzoni, Camus – aveva testimoniato degli effetti devastanti di una qualche malattia contagiosa. Ma nessuno, per esempio, nell’elencare i grandi eventi del XX secolo avrebbe messo nella lista, oltre alla Prima e alla Seconda Guerra mondiale, la Rivoluzione d’ottobre, la liberazione delle colonie africane, la Rivoluzione cubana, la Lunga marcia di Mao, la guerra del Vietnam, l’erezione del muro di Berlino e poi il suo crollo, anche l’epidemia provocata dall’influenza “spagnola” che, secondo le ultime stime, fece tra i 40 e i 100 milioni di morti (più delle due guerre mondiali messe insieme) e contagiò un terzo della popolazione mondiale. Perché?

Una delle ragioni sta nel nostro rapporto con la malattia e con la sua rappresentazione e di come il suo ruolo si sia evoluto nel corso del tempo.

Oggi la malattia – soprattutto quella infettiva – non è più una causa di morte su scala comparabile a quella dei conflitti, non è più all’origine di sconvolgimenti di portata “storica”. Soprattutto perché, almeno fino ad oggi, erano venute a scomparire le grandi pandemie del passato, le pesti medievali. Perché, dunque, occuparsene e indicarla come uno degli eventi principali del Novecento? La morte per malattia, ancorché contagiosa, era diventata, nel nostro comune sentire del XX secolo, una causa “naturale”.

La morte evitabile

Una seconda ragione sta nel nostro rapporto con la memoria, soprattutto di eventi funesti, e nella spiegazione che diamo di ciò che ci accade.

Oggi si è persa la memoria di quel tipo di accadimenti, in parte perché non li riteniamo più “possibili”. Un tempo si moriva di più e più spesso per qualcosa che arrivava all’improvviso. L’esperienza della morte era più comune e quindi più ordinaria.

La morte che seminò la pandemia della “spagnola” rimase annoverata tra gli eventi privati e individuali – di molte persone, certo – il cui ricordo si è perso con il passare delle generazioni.

Il colera, il vaiolo, la polio, furono eventi devastanti ancora nel XX secolo, eppure rimasti nell’ambito delle esperienze e dei ricordi “privati”.

Una terza ragione sta nell’idea di progresso, di come il mondo cambia e di come esso, e la società in esso, si evolve. Se c’è una caratteristica che attraversa il XX secolo e che contraddistingue questo nostro tempo attuale è l’idea che il progresso dell’umanità è tale che il passato è superato per sempre e da esso ci siamo emancipati una volta per tutte.

Progresso è l’ineluttabile evolversi delle cose per cui non si torna mai indietro. Morire per una pandemia? Cose d’altri tempi, ormai, la scienza ci ha fatto superare tutto questo! (ancora nel 1972, Frank Macfarlane Burnet, già premio Nobel per la medicina, affermava che «scrivere di malattie infettive era come occuparsi di qualcosa ormai passato alla storia»).

Cose da poveri

E una quarta ragione, strettamente intrecciata con la terza, sta nel miglioramento del tenore di vita generato dall’aumento del reddito che si è accompagnato all’idea che tanto più diventiamo ricchi tanto meglio stiamo e, quindi, tanto più improbabile diverrà l’evenienza di pandemie, malattie e pestilenze, preparati come saremo ad affrontare qualunque occorrenza spendendo, se serve, poiché le nostre risorse sono praticamente infinite.

Le epidemie – che ancora pur ci sono – sono “cose da poveri” e, non a caso, continuano a svilupparsi nei paesi in via di sviluppo (non abbiamo trattato così la Sars ed Ebola, pur pericolosissime?). Esse non ci riguardano, in definitiva, se non in modo marginale e ciò di cui dobbiamo preoccuparci, al più, è di essere preparati a contenerle e a impedire che si diffondano tra noi. Cosa che i più ritenevano ovvia e che ci aveva illuso di proteggerci per sempre da simili evenienze.

L’ultimo rapporto mondiale del 2019 sul grado di preparazione dei paesi avanzati diceva che questi, Stati Uniti in testa, erano prontissimi a fronteggiare l’insorgere di una pandemia.

Eppure, la scienza ci informa che negli ultimi decenni nuovi agenti patogeni sono emersi, virus sconosciuti si riproducono ad un passo mai visto prima.

L’alterazione degli ecosistemi, il mondo naturale si sta modificando sotto i nostri occhi e a causa nostra. Certo, possiamo correre ad erigere barriere, a ricercare “vaccini” che ci mantengano temporaneamente protetti, in una corsa contro il tempo che rischia di dover accelerare.

Perché all’origine vi è il rapporto malsano tra l’uomo e la natura, che tanto più egli cerca di domare e sfruttare a suo piacimento, tanto più essa reagisce. Oggi dobbiamo lottare per l’uomo e contro la volontà di potenza della specie umana.

Rimescolare l'ordine naturale

Molto è cambiato negli ultimi decenni, le accelerazioni della storia hanno agito come un vento impetuoso che molto ha coperto sotto le sue sabbie. E il motore del progresso, alimentato dalla macchina generatrice di ricchezza dello sfruttamento inesauribile delle risorse, non ha conosciuto ostacoli, dandoci l’illusione che fosse tutto sotto controllo, che il nostro dominio sulla natura fosse totale.

La pandemia da Covid-19 ha aperto uno squarcio sulla finestra della storia, su come la interpretiamo e sull’importanza di quella narrazione.

Così, un’emergenza sanitaria non prevista e non anticipata ha rimescolato l’ordine “naturale” delle cose e non sappiamo a cosa riferirci.

La politica balbetta, l’economia è come un motore in panne. Ma per quanto cerchiamo tracce con cui confrontare la situazione in atto, non troviamo termini di paragone. Certo non la crisi del 1929 e la grande depressione che seguì. Forse le grandi pandemie del Seicento, ma erano altri tempi.

Schiacciati sul presente, incapaci di guardare al futuro, non riusciamo a dare un senso alla spaventosa fragilità che ci si è improvvisamente palesata davanti, facendoci risvegliare, ricordandoci ciò che pareva dimenticato.

È stato come un avvertimento, per farci sentire il nostro essere umani, viventi tra gli altri viventi. Ma anche una certa arroganza del nostro essere ricchi e sentirci al riparo di queste occorrenze che colpiscono per lo più i paesi poveri.

Comprendere il passato, spiegarlo, è compito degli storici e di tutte le istituzioni che si sono date il compito di preservare e trasmettere la memoria. Costruire sul passato è compito della politica, è la radice della civiltà che in esso trova legittimazione.

La pandemia di oggi ci costringe a cambiare lenti per guardare indietro, perché ha riportato alla luce la malattia, la memoria che ne avevamo e l’idea che fossero tutte “cose d’altri tempi” e dei mezzi che servono per contrastarle. E ci ricorda come il mondo in cui viviamo – le relazioni sociali ed economiche, la natura e il nostro abitarla – dipendono in grande parte da quanto salubre è quel mondo stesso.

Se l’economia oggi ha assunto l’importanza centrale che vediamo, anch’essa subisce, come ogni altra attività umana, le conseguenze di quanto sano o malato è il mondo. E già vediamo che per fronteggiare le conseguenze della pandemia e delle azioni che sono state prese per contenerla, ricorrere alle esperienze di ricostruzione e rilancio a seguito di devastazioni o crisi non sembra rendere giustizia dei cambiamenti provocati e delle misure che serviranno ad uscirne.

Cambierà dunque il nostro modo di leggere la storia passata e corrente dei nostri affari, del nostro paese e dell’umanità intera? Forse, ma dipenderà da come elaboreremo la lezione.

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