Il 1921 segna la nascita di molti partiti comunisti attraverso il distacco dai partiti socialisti di quella corrente che approvava in toto il 21 punti di Lenin, una sorta di breviario per aderire all’Internazionale comunista.

Solo in Norvegia il partito laburista abbracciò da subito  l’ispirazione rivoluzionaria dei bolscevichi, e aderì al movimento comunista mondiale pur senza cambiare nome al partito; in realtà si accorsero presto dell’errore e nel 1923 fecero marcia indietro rompendo con il Comintern.

L’evoluzione dei partiti comunisti europei ha seguito una traiettoria diversa a seconda delle divisioni che prima ancora degli anni Venti attraversavano i rispettivi paesi.

L’adesione alla versione rivoluzionaria del socialismo piuttosto che a quella riformista dipende infatti da quanto solide fossero le istituzioni e da quanto profonde invece fossero le fratture interne.

I comunisti rimasero confinati in una posizione marginale laddove , come in Gran Bretagna e Svezia, il conflitto di classe, ancorché fortissimo, non arrivava ad intaccare un certo, anche minimo , consenso nel sistema, perché non c’erano altre drammatiche divisioni su cui tale conflitto di classe potesse appoggiarsi per minare il sistema stesso.

In altri paesi come l’Italia e Francia, dove la rottura verticale e irrimediabile tra stato e chiesa rendeva fragile il consenso alle istituzioni in quanto una grande massa di cittadini , seguendo l’orientamento della Chiesa, si poneva in radicale contrasto con il sistema, i propositi rivoluzionari incarnati dai comunisti trovavano un terreno fertile per attecchire.

In sostanza, laddove il sistema era scosso da laceranti contrasti non ricomposti sul piano religioso (Francia e Italia) o su quello relativo  ad una identità nazionale tardiva o frastagliata ( Norvegia, Finlandia e Reich tedesco), i comunisti potevano prosperare.

Poi, gli eventi storici peculiari hanno determinato evoluzioni specifiche da paese a paese (ad esempio la partecipazione intensa o meno alla resistenza durante la seconda guerra mondiale), ma non hanno scardinato questo  impianto esplicativo generale. formulato negli anni sessanta dal grande politologo Stein Rokkan.

Il caso italiano

Il caso italiano si inserisce perfettamente in questo schema. La forza della componente rivoluzionaria rispetto a quella riformista nel dopoguerra non dipende solo dal maggiore cinismo e dalla maggiore abilità manovriera della classe dirigente del Pci, il cui obiettivo primario era proprio la conquista dell’egemonia sulla sinistra marginalizzando il partito socialista - che da parte sua,  si mise d’impegno per favorire il progetto comunista con una serie di errori e dabbenaggini impressionanti.

Il successo del Pci dipende anche dall’aver trovato un terreno fertile ad offerte politiche massimaliste e rivoluzionarie. La cultura politica di massa era ancora innervata di un radicato ribellismo anti-istituzionale.

L’ estraneità nei confronti del sistema venne tenuta a freno da una classe dirigente cattolica-democristiana che, per uno di quei miracoli della sorte che ogni tanto ci assiste, aveva respinto le intimazioni pacelliane per instaurare una sorta res publica cristiana  intrisa di clericalismo antiliberale. 

Quest’opera maieutica nei confronti di grandi masse di fedeli, del tutto estranee ai principi della democrazia e orientate piuttosto o all’obbedienza al potente o al suo speculare cioè alla rivolta, non riusciva però a portare tutti “dentro lo stato”.

Fiammate laurine e neofasciste al Sud, terrorismo rosso e nero, pulsioni secessioniste al nord e infine anche l’ondata iniziale dell’antipolitica grilina (che, ricordiamolo, nel 2018 conquista il 48 per cento dei voti al sud…) sono esemplificazione per quanto sommarie, di quanto la cultura politica di massa sia stata e sia tuttora innervata da sentimenti destabilizzanti per il sistema.

Questa faglia di distacco, sfiducia e rifiuto non l’ha certo scoperta Beppe Grillo: semmai gli ha dato una rappresentanza nuova , inedita, fuori dagli schemi. Ma è su quella stessa faglia che il Pci ha prosperato per decenni, ad onta del riformismo emiliano cui non venne mai permesso di attraversare gli Appennini per non disturbare i grandi strateghi della capitale.

Ritorno sulla terra

Dal momento in cui i comunisti non hanno più potuto spingere su quel pedale, mobilitando i propri sostenitori su propositi di trasformazione palingenetica in quanto le loro coordinate ideologiche tramontavano rovinosamente, hanno perso contatto con quel mondo che era stato nutrito con tali aspettative.

Il ritorno sulla terra è stato traumatico. Non solo perché non c’era più il paradiso in terra da raggiungere, quanto perché l’adesione dei post-comunisti al riformismo non ha trovato un terreno agevole: si è scontrata con la trasformazione del sistema partitico dei primi anni Novanta e con la diffusione di una nuova egemonia culturale, il neoliberismo.  Incertezze, contraddizioni e cortocircuiti erano inevitabili. E sono ancora presenti oggi.

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