Lamentare la scarsità di donne, all’indomani della formazione di un governo, è diventato parte dei rituali della nostra democrazia. Un terzo del totale è la soglia dove si ferma il genere sottorappresentato, in questo esecutivo come in quelli che l’hanno preceduto. La delusione è forse più forte, stavolta, per via dell’aura miracolosa che aleggia sul nuovo presidente del Consiglio. Nonostante la nomina di alcune donne in posizioni di rilievo, nemmeno l’uomo della provvidenza ha invertito la logica italiana dell’ “old boys club”, forse perché già impegnato nell’impresa – effettivamente sovrannaturale – della sintesi politica degli opposti.

Il dibattito più significativo è in corso però a sinistra, data la completa assenza di ministre tra i rappresentanti del Partito Democratico e di Liberi e Uguali. Le forze che, più di tutte, dichiarano il valore della parità di genere ora perdono nettamente alla sfida nei numeri, in particolare nel confronto con Forza Italia.

La sinistra, dunque, ha un problema con le donne? La risposta è sì, con tutta evidenza. Il problema, però, riguarda più le dinamiche di potere interne ai partiti che l’asse destra-sinistra. E non è legato solo ai numeri.

Per una sorta di paradosso, in Italia le donne si fanno meglio strada nei partiti “personali”, che sono più spesso additati per la gestione proprietaria (e machista) del comando.

A causa dell’assetto verticale, non scalabile, e per la credenza nel carattere naturalmente docile delle donne, i leader tendono a promuovere squadre a maggioranza femminile. Ne può nascere una classe politica di donne leali al capo, ma anche un protagonismo che si emancipa dal suo potere.

Diverso è il caso dei partiti d’apparato in cui si scontrano correnti e sotto-correnti, e in cui le donne – anche qui seconde file – devono cedere il passo ai rispettivi sotto-leader.

Il problema del Pd è tutto qui, nelle correnti che si identificano al maschile: zingarettiani, orlandiani, ex renziani, franceschiniani… La presenza di un organismo collegiale come la Conferenza delle donne democratiche, nato per costituire uno spazio autonomo per i temi di genere e il protagonismo femminile, non è riuscito finora a intaccare questa logica.

Oltre l’alternativa tra cooptazione verticale e vita da eterne seconde, c’è solo la strada che porta le donne a fondare un partito di cui poter prendere la guida, attuando un modello di leadership che non chiede né concede nulla a capi uomini ma nemmeno – di norma – alla forza collettiva di altre donne.

Il problema della rappresentanza delle donne, tuttavia, non si riduce a un problema di leadership né sta solo nei numeri. La teorica politica Hanna Pitkin, nel suo famoso studio The Concept of Representation, distingueva la rappresentanza «descrittiva» da quella «sostanziale». Il tema della percentuale di donne nelle assemblee e nelle sedi decisionali riguarda l’aspetto «descrittivo», cioè la corrispondenza tra rappresentanti e rappresentati in virtù di caratteristiche condivise.

La rappresentanza «sostanziale» fa invece riferimento alla capacità di portare avanti i bisogni, le domande, gli interessi del gruppo rappresentato. È qui che si realizza al meglio l’ideale della circolarità tra il dentro e il fuori delle istituzioni che nutre il processo democratico, al di là del momento elettorale o della nomina degli organi decisionali. Ed è su questo terreno che il passaggio dal vecchio al nuovo esecutivo può ora destare maggiori preoccupazioni.

Non va dimenticato che il governo appena incaricato avrà il compito di stendere il Piano per l’utilizzo dei fondi del Next Generation EU. Nella fase conclusiva dell’esecutivo guidato da Conte, il lavoro dei partiti, e tra questi in particolare proprio del Partito Democratico e di Leu, aveva portato ad enfatizzare la parità di genere come uno degli assi portanti, nonché come dimensione trasversale a tutti gli impegni di spesa.

Eppure, al momento delle consultazioni per la formazione del nuovo governo, Mario Draghi, che pure ha invitato le parti sociali e le associazioni ambientaliste, non ha ritenuto necessario ascoltare le associazioni e reti di donne, acquisire input dal loro sapere esperto in vista della ripresa.

Il "triangolo dell’empowerment”, di cui parlano gli studi sulle politiche di genere, ha bisogno di donne nei partiti e in parlamento, donne nelle amministrazioni pubbliche, e donne nei movimenti, in un rapporto di collaborazione positiva. Ciò che si stenta a vedere è dove, nel nuovo governo, potrà fare leva il «fuori» per produrre un effetto generativo.

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