Il 14 luglio scorso il dollaro ha raggiunto la parità con l’euro, come non accadeva da venti anni: in quel momento la moneta unica è arrivata a deprezzarsi cumulativamente del 18 per cento rispetto alla divisa americana in poco più di un anno, ovvero una svalutazione d’altri tempi.

La parità dollaro-euro non ha di per sé una particolare rilevanza economica, ma ha una forte valenza simbolica della strada sempre più stretta entro la quale dovrà operare la Bce alla vigilia del suo primo aumento dei tassi, atteso per la prossima riunione di giovedì. 

Da marzo la Federal Reserve ha imposto una forte accelerata all’aumento dei tassi americani e ha cambiato retorica dichiarando la priorità incondizionata nella lotta all’inflazione.

La svolta della banca centrale ha avuto forti ripercussioni su economia, mercati e aspettative non solo negli Stati Uniti, ma nel resto del mondo.

La guerra al contrario

Per contrastare l’inflazione importata (i prezzi di tutte le materie prime sono in dollari), e memori dei rischi finanziari che il dollaro forte comporta per il debito estero pubblico e privato, le banche centrali di tutto il mondo hanno dato il via a un’ondata di aumenti dei tassi per difendere il valore delle proprie monete.

Il Financial Times ha calcolato che negli ultimi tre mesi ci sono stati ben 62 aumenti dei tassi da parte di 55 banche centrali, definendola una guerra valutaria “al contrario” (in passato le guerre valutarie consistevano in svalutazioni competitive).

Due grandi eccezioni: Banca del Giappone e Bce. Ma mentre in Giappone l’inflazione importata viene vista come un grimaldello per sradicare una deflazione diventata ormai endogena, in Europa il dollaro forte amplifica un’inflazione da costi già elevata.

Anche per questa ragione il prossimo aumento della Bce è diventato ineludibile nonostante la crisi energetica, la brusca frenata della Cina, il prevedibile rallentamento degli Usa e il dilagante disagio sociale, contro cui la politica monetaria può poco.

L’aumento raddoppiato

Così il mercato ha cominciato a scommettere (vedi apprezzamento dell’euro degli ultimi giorni) che l’aumento sarà di 0,5 per cento, superiore allo 0,25 annunciato in precedenza.

Perché il rischio, a differenza degli Stati Uniti, è che la recessione arrivi in Europa prima dell’aumento dei tassi, invece che esserne la conseguenza.

La Bce si ritroverebbe in questo caso a combattere l’inflazione in mezzo a una recessione rendendo i suoi margini di manovra oltremodo ristretti.

Al di là della dimensione dell’aumento, sarà molto più importante cosa la Bce dirà sulla futura traiettoria dei tassi e quale spiegazione fornirà per la sua decisione.

Chiarezza e credibilità sono cruciali perchè i costi economici dell’incertezza sul futuro andamento dei tassi possono essere molto elevati: per averne un’idea basta guardare all’andamento del contratto futures del tasso Euribor, quello maggiormente correlato al costo del credito, per la scadenza dicembre 2023, quando si pensa che l’inflazione sarà rientrata: era 0,4 per cento a inizio marzo, salito a 2,7 a metà giugno, crollato un mese dopo a poco sopra l’1 per cento, per poi risalire oggi a 1,65, in attesa della Bce.

Lo scudo anti-frammentazione

L’altro punto su cui la Bce dovrà fare chiarezza è sullo scudo anti frammentazione (l’allargamento degli spread sui titoli di stato).

Un primo errore è stato fatto quando la Bce ha annunciato l’avvio della fase di aumento dei tassi senza preoccuparsi dell’impatto che questa svolta avrebbe prodotto sugli spread del debito dei paesi altamente indebitati, come l’italia.

Un secondo quando, accortasi del primo, ha convocato una riunione di emergenza per annunciare lo studio di un meccanismo anti frammentazione, senza però fornire alcun dettaglio sulle sue caratteristiche e funzionamento.

Ora il mercato richiede chiarezza su tre aspetti: ammontare delle risorse dedicate, condizionalità, e implicazioni per la politica monetaria.

La Bce ha dichiarato che allo scudo saranno dedicate le risorse rivenienti dai titoli di stato in scadenza, che il mercato stima in circa 17 miliardi al mese.

A prescindere dall’ammontare (nessuno può dire se basteranno in caso di crisi), mettere un limite alla dimensione degli interventi rischia di pregiudicare la loro efficacia: il successo del whatever it takes, che non comportò l’acquisto di nessun titolo da parte della Bce, fu proprio dovuto al whatever, ovvero senza limiti o condizioni.

La Bce già possiede uno strumento per intervenire a difesa dei titoli di stato di un paese,  l’Omt, che però oggi non viene preso in considerazione perché richiede l’imposizione di condizioni che non sono ritenute socialmente e politicamente sostenibili.

La domanda allora è: quali condizioni prevederà il nuovo scudo?

L’ultimo aspetto da chiarire è come la Bce intenda sterilizzare gli acquisti di titoli di stato che lo scudo comporta. Quando la banca centrale compra un titolo, crea moneta, che però sarebbe in contrasto con la politica di aumento dei tassi.

Se la Bce volesse intervenire per ridurre lo spread dei Btp coi titoli tedeschi, il modo più semplice per farlo, e sterilizzare l’aumento di moneta creata con l’acquisto di titoli italiani, sarebbe quello di vendere titoli tedeschi in portafoglio per un ammontare simile. Ma verrebbe percepita come una manovra che aumenta i rendimenti dei Bund per aiutare l’Italia: non so come la prenderebbero in Germania.

Ci vorrà dunque molta chiarezza, lungimiranza e credibilità da parte della Bce, perchè la strada per lei, andando avanti, si farà sempre più stretta; e ridotti i margini di errore.

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