L’altro giorno ho chiesto “a una persona che conosco” (cioè all’intelligenza artificiale) se il dirigente di una società di assicurazioni possa fare anche il poeta. La persona che conosco prima mi ha risposto con entusiasmo: «Certamente!».

Poi mi ha spiegato come non ci sia nulla di strano nel mescolare le due cose: «Molti professionisti di successo coltivano passioni al di fuori della loro carriera principale, e la poesia potrebbe essere una di queste passioni». Alla fine, però, ha assunto un tono più cauto: «È importante notare che la gestione di una società di assicurazioni richiede un impegno considerevole, quindi un dirigente che sia anche un poeta potrebbe dover bilanciare attentamente le sue responsabilità lavorative con la sua vocazione artistica». Risposta razionale e moralista. Da intelligenza artificiale.

Spazi piccoli

Io non so da dove nasca la poesia, ma mi sembra possa nascere anche dentro spazi molto piccoli. Nei cassetti dell’ufficio. Oscar Wilde affermava (l’ho trovato nei miei vecchi appunti, spero di dirlo correttamente) che un poeta davvero grande è la creatura meno poetica che ci sia. I poeti scarsi (che hanno «pubblicato sonetti di quart’ordine») possono essere invece persone irresistibili. Il poeta scarso «vive la poesia che non sa scrivere. Gli altri scrivono poesia che non osano praticare».

Uno dei massimi poeti in lingua inglese è stato anche il dirigente di una società di assicurazioni. Parlo di Wallace Stevens, americano. Harold Bloom, il famoso critico letterario antipaticissimo, lo definì il poeta americano migliore e più significativo della sua epoca. Helen Vendler, altra critica letteraria, scrisse una cosa che mi piace molto: «Nelle poesie lunghe di Stevens si distinguono tre stati d’animo: l’estasi, l’apatia e la riluttanza tra l’estasi e l’apatia».

Penso spesso a Wallace Stevens, davvero molto spesso. Ripeto i suoi frammenti mentalmente almeno una volta alla settimana. Da parecchi anni, da quando ancora abitavo in una vita precedente, lui è presente nella mia esistenza. «L’unico imperatore è l’imperatore del gelato».

Wallace Stevens era il dirigente di una società di assicurazioni e una persona non poetica, non in modo evidente. All’apice della carriera guadagnava l’equivalente di 350mila dollari all’anno di oggi. Quando vinse il Pulitzer gli offrirono un posto a Harvard. Rifiutò per non abbandonare il suo lavoro, il suo ufficio, la sua identità manageriale. Tutte le sue foto mostrano un aspetto esteriore formale: cravatta, abito di sartoria, capelli candidi e ben tagliati, pinguedine rassicurante.

Non so se non osasse vivere la poesia, forse la sua poesia era impossibile da vivere costantemente. Eppure si immedesimò. Negli animali, negli uomini di neve. Scrisse un testo sul girare in tondo.

A lui si deve una definizione molto riuscita, ripresa in seguito da Seamus Heaney: «La nobiltà della poesia è una violenza interna che si oppone a una violenza esterna». La poesia è l’immaginazione che preme contro la realtà, e la materia di cui sono fatte le passioni è proprio l’immaginazione. La poesia può fare molto per noi, in teoria. In pratica non può fare nulla: siamo noi che dobbiamo prenderla e leggerla. È richiesta la nostra collaborazione. Non esiste un cavetto che possiamo attaccare al nostro cervello per scaricarci poesia. «Nella mia stanza il mondo è al di là della mia capacità di capire; ma quando cammino vedo che consiste di tre o quattro colline e una nuvola».

Qualcuno ha detto che Wallace Stevens era una raffinata confutazione dell’impressione che la vita debba per forza essere frenetica. Nato a Reading, in Pennsylvania, nel 1879, Stevens entrò a Harvard a diciotto anni. Si laureò in Legge. Nel 1934 divenne vicepresidente della Accident and Indemnity Company di Hartford. Morì nel 1955.

Chi l’ha conosciuto parla di una persona estremamente equilibrata, anche se capace di scontentezza e di rabbia contro gli impostori. Non mescolava la poesia agli affari. Odiava l’irresponsabilità. Certo a volte le frasi gli venivano mentre era in macchina verso l’ufficio.

Riguardo al senso di tragedia che incombe sul mondo, disse: «Ciò che il poeta possiede non è una soluzione, ma una qualche difesa». E dov’è questa difesa? La sua scrivania di legno scuro, in azienda, era sempre pulita, vuota. Un’idea di ordine. La difesa probabilmente è invisibile. In altri luoghi misteriosi, ai quali evidentemente ebbe accesso, la trovò per noi. «Ero il mondo in cui camminavo, e quel che vedevo udivo o sentivo veniva da me solo; e qui mi ritrovai più vero, più strano».

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