Nei primi due decenni di questo secolo è già successo di tutto. Sarà, forse, per questa ragione che non ci siamo accorti che la produzione globale di carne è aumentata del 39 per cento. Un numero davvero impressionante ma passato del tutto inosservato.

Eppure dovrebbe preoccuparci se pensiamo che i rutti delle vacche, i liquami, la deforestazione per fare spazio ai pascoli, sono gli ingredienti principali delle emissioni di CO2 del settore agricolo.

Settore che, è bene ricordarlo, contribuisce per una fetta cospicua alla crisi climatica (più di un terzo). Quindi il calcolo è, tutto sommato, intuitivo: se aumenta la produzione di carne, aumenta di conseguenza anche il riscaldamento globale. E questa è una pessima notizia. Che, però, dicevamo, è passata del tutto inosservata. Sarà perché ci siamo concentrati così tanto a schierarci tra tifosi e detrattori della carne coltivata, sarà che abbiamo chiuso un occhio di fronte alle super offerte promozionali che ogni giorno troviamo nei supermercati e che ci inducono a comprare una fettina di carne 100 per cento italiana (come se i rutti di una vacca valtellinese emettessero di meno di una mucca argentina!). Oppure sarà che bisogna semplicemente fare in modo che queste notizie non escano, si sappiano il meno possibile. Anzi, vengano addirittura distorte.

È questo quello che sembra emergere dalla ricostruzione del Guardian che ha raccolto la denuncia di due scienziati, secondo cui un loro studio, pubblicato dalla Fao in occasione della Cop 28 di Dubai, sarebbe stato distorto per dimostrare che ridurre la produzione di carne impatterebbe di pochissimo nella riduzione delle emissioni. Come a dire «mangiate e producete quanta carte volete tanto non cambia nulla». Peccato che i due scienziati abbiano sostenuto – e sostengano – esattamente il contrario. E questo è un bel problema perché la Fao è la fonte primaria di dati agricoli, per cui, se non ci si può fidare neppure di loro, vuol dire che siamo nei guai.

Come uscirne

C’è però una buona notizia che può aiutarci a uscire da questo ingorgo e a offrircela è un gruppo di associazioni - tra cui Terra!, Greenpeace, Wwf, Lipu e Isde – che hanno lanciato una proposta di moratoria per gli allevamenti intensivi. Il ragionamento è semplice e, aggiungo, di buon senso: prendiamoci del tempo per discutere e capire quale futuro debba avere il settore zootecnico, nel frattempo fermiamo i motori, cioè smettiamo di costruire altri allevamenti intensivi.

Per dare un numero: in Italia, ogni anno, vengono allevati in modo intensivo più di 700 milioni di animali. Come sottolineano i proponenti, «il sistema zootecnico è attualmente responsabile di oltre due terzi delle emissioni di ammoniaca in Italia e ha conseguenze dirette sulla salute umana. Infatti, l’ammoniaca prodotta dagli allevamenti intensivi è la seconda causa di formazione delle polveri sottili (PM2,5), responsabili di migliaia di morti premature ogni anno nel nostro paese».

Questa proposta è stata presa così sul serio da trasformarsi in una proposta di legge che sta iniziando il suo iter parlamentare e che vede coinvolti parlamentari di diversi schieramenti, da Andrea Orlando del Partito democratico a Michela Brambilla di Noi moderati.

È una buona notizia, dicevo, perché finalmente darebbe al paese la possibilità di aprire una riflessione pubblica non solo sul ruolo degli allevamenti, ma dell’intero modello produttivo che abbiamo messo in campo e che sta dimostrando tutti i suoi limiti.

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