- Assurdo equiparare le manifestazioni contro il governo di ultradestra in Israele agli assalti populisti contro i palazzi della democrazia in Brasile o USA, Davide Assael ha ragione.
- Quando è precisamente contro lo “schema mussoliniano” dello svuotamento della democrazia dall’interno che le opposizioni israeliane si battono, e in particolare contro l’annunciata subordinazione della corte suprema all’esecutivo.
- Però non è vero che la questione della democrazia in Israele non c’entra nulla con la questione palestinese. Come si chiede proprio in questi giorni Gideon Levy sull’Internazionale, è una democrazia un paese in cui cinque milioni di persone (i palestinesi) vivono senza diritti, e proprio con la legittimazione della sua corte suprema?
Le centomila persone in piazza a Tel Aviv il 14 gennaio scorso e di nuovo sabato sera contro l’attuale governo di estrema destra in Israele hanno riacceso in tutto il mondo un po’ di speranza che la deriva esplicitamente razzista e suprematista di quel governo possa essere fermata dall’interno: che un dissenso politico, civile e morale da quella deriva esista ancora nella società israeliana, e possa finalmente rianimarsi. Davide Assael su questo giornale ha contestato con forza l’equiparazione fra questo dissenso e gli assalti bolsonaristi o trumpiani alle sedi dei parlamenti e ai palazzi della democrazia, che alcuni membri dei partiti oggi al governo in Israele sembrano voler accreditare, chiedendo addirittura arresti o accuse per sedizione nei confronti dei leader dell’opposizione, moderata o radicale.
Incapaci, tanto i bolsonaristi quanto le opposizioni israeliane, di riconoscere l’esito elettorale, e quindi la legge della democrazia. Davide Assael fa giustamente valere il contenuto della battaglia delle opposizioni in Israele, che si battono contro l’annunciata riduzione dei poteri e dell’autonomia della corte suprema, e quindi in difesa della separazione dei poteri e del rispetto dei diritti individuali, che sono alla base delle democrazie. E come non dargli assolutamente ragione. Come non dargli ragione anche sullo “schema di mussoliniana memoria” che consegnerebbe nelle mani di chi ha vinto le elezioni un potere illimitato: un classico modo di svuotare la democrazia dall’interno, “sfruttando le sue stesse procedure per legittimarsi”.
Questione palestinese e democrazia
Su una cosa, però, è difficile dargli ragione, e se mi permetto l’obiezione è solo per il suo richiamo conclusivo a un mio articolo sulla decisione di Ben Gvir, ministro dell’Interno in questo governo e leader di Potere ebraico, di bandire da tutti gli spazi pubblici la bandiera palestinese, in cui appunto leggevo questa misura come un tentativo di cancellare un gran pezzo di verità, perché non solo i palestinesi esistono, ma esiste anche l’enorme questione che, con le loro bandiere, sollevano da mezzo secolo davanti agli occhi del mondo. La questione palestinese non c’entra nulla con la democrazia israeliana che è ora sotto minaccia, avverte Assael.
Temo che c’entri moltissimo, invece: e proprio nello specifico, in relazione alla corte suprema. Perché è certo agghiacciante il disegno dell’attuale ministro della giustizia, Yarin Levin, di una riforma che concede al parlamento il potere di annullare in qualsiasi momento le decisioni della corte. La questione è se questa riforma non sia stata, nel corso di cinquant’anni, preparata proprio da questa corte. Poco conterebbe se questo dubbio angoscioso lo sollevassi io. Ma invece lo afferma Gideon Levy in un articolo appena tradotto sull’Internazionale, e in lui l’angoscia non si vela di dubbio. Ovviamente non sarebbe una democrazia un paese senza più divisione dei poteri.
Gideon Levy
Ma non è una democrazia, afferma Gideon Levy, nemmeno un paese in cui cinque milioni di persone (i palestinesi) vivono senza diritti, con l’approvazione della corte suprema. Che non ha mai recepito il principio di illegalità degli insediamenti di coloni israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme Est. Ha approvato le detenzioni amministrative senza processo, le deportazioni di massa, la demolizione di case, la rapina delle terre palestinesi, anche dopo gli accordi di Oslo. Israele sta raccogliendo i frutti della legittimazione data per cinquant’anni all’occupazione dal suo sistema giudiziario: la corte suprema ha funzionato più come un tribunale militare che come un garante.
Con poche, piccolissime ma luminose eccezioni, aggiungo io: eccezioni che pure avevano riempito di speranza gruppi di israeliani e palestinesi uniti in memorabili battaglie non-violente contro il regime d’occupazione e l’apartheid che ne consegue. Forse le pur preziose dichiarazioni in difesa dell’autonomia della corte suprema da parte della sua Presidente Esther Hayut avrebbero riacceso un po’ di questa speranza, se avessero anche riportato alla pubblica coscienza, pur tardivamente, tutto il passato di questa istituzione: anche il suo lato oscuro.
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