Dopo cinque anni di discussioni e travagli, passando da due congressi partecipati e drammatici, gli eredi del Pci diventati Pds (Partito democratico della sinistra) si videro accusati di volere un destino di terrore e miseria in Italia: queste le parole testuali usate  da  Silvio Berlusconi nella sua allocuzione televisiva con cui “scese in campo”, all’inizio del 1994.

Tutta l’autoanalisi sul proprio passato e l’autocritica sulle vecchie idee che gli ex-comunisti avevano sviscerato di fronte all’opinione pubblica non valevano nulla: in fondo erano sempre quelli che volevano portare via la roba agli onesti padri di famiglia, gettare in galera i dissidenti e, in sostanza, manda in rovina il  paese.  

Nemmeno l’ingresso del Pds nell’Internazionale socialista, promosso dalla leadership del Psi nell’ultimo gesto politicamente intelligente prima di perdersi in una spirale autodistruttiva, era servito agli ex-comunisti a disporre di nuove credenziali.

L’ostilità granitica della destra contro tutto ciò che avesse un qualche sentore di sinistra non poteva essere scalfita in alcun modo. Il rischio di vedere gli eredi di Berlinguer al potere fece scattare una serie di riflessi condizionati per cui andava bene tutto, anche i missini di Gianfranco Fini, pur di evitare che i cosacchi del Don si abbeverassero alle fontane di San Pietro.

Al leader del Movimento sociale bastò infatti qualche dichiarazione, anche di peso per la verità, per essere subito accolto a braccia aperte nell’arco costituzionale dal quale era stato  - e a lungo si era – escluso.

Nonostante le ricerche dimostrassero che in quel partito la grande maggioranza dei quadri intermedi – non semplici militanti di periferia -  apprezzassero a larga maggioranza il regime fascista, anche la sinistra si precipitò a “sdoganarlo”, secondo  l’espressione adottata all’epoca.

Nell’arco di qualche mese, nonostante non fosse stato affrontato nemmeno per un momento le ragioni del distacco con la loro storia,  i neo-fascisti, etichettati all’istante post-fascisti, entrarono al governo: un esito che nessuno avrebbe nemmeno immaginato fino a sei mesi prima. 

Agli ex-comunisti del Pds, invece, non servì nemmeno l’ulteriore (inutile) trasformazione in Ds (Democratici di sinistra) e l’alleanza organica con i postdemocristiani nella coalizione dell’Ulivo per redimersi.

La destra, ma anche molti autorevoli commentatori, continuavano a martellare sulla loro inaffidabilità, sulla loro incoercibile natura di bolscevichi, sulla loro nostalgia del passato, fino alla recente accusa di essere poco riformisti, come se qualcuno stesse preparando la rivoluzione (e questa accusa veniva anche da chi, da giovane, aveva pericolosamente giocato con la rivoluzione regalandoci gli anni più brutti del dopoguerra). Gli esami non finivano mai da quelle parti.

La Lega riabilitata 

Questo excursus sulle vicende passate aiuta forse a cogliere appieno le ragioni della rapidità con cui sono state (ri)aperte le porte alla Lega. 

Nell’arco di 24 ore Matteo Salvini ha cessato di essere considerato il pericolo pubblico numero uno dell’Europa, quello per cui nell’agosto del 2019 si mossero mari e monti, fino al di là dell’ l’Oceano Atlantico, pur di fermarlo, obbligando il Pd ad ingoiare l’alleanza con i Cinque stelle invece di andare al voto e capitalizzare così la sua opposizione alle “forze populiste”. 

Inutile chiedersi quale faticoso travaglio abbia attraversato la Lega per presentarsi al cospetto di Mario Draghi mondata del suo precedente marchio d’infamia populista e sovranista; o quante discussioni negli organi del partito e nella pubblica opinione si sono svolte per sviscerare, e condannare, le tradizionali posizioni  antieuropee e filo-russe, anti- immigrati ed omofobe.

Forse hanno solo interceduto i santi invocati da Salvini nel suo comizio milanese, in piazza Duomo, a conclusione della campagna elettorale per le europee.

Come è facile per la destra essere accettata: due parolette, un sorriso, e via. Non si richiedono prove di affidabilità. Basta la presenza del pacioso Giancarlo Giorgetti a fianco del truce Salvini a rassicurare Quirinale e Palazzo Chigi.

Naturalmente di destra

Questo doppio standard dice molto della cultura profonda di questo paese. La sinistra è tuttora considerata un accidente della storia, un corpo estraneo da circoscrivere e sorvegliare occhiutamente  perché intrinsecamente dannosa. Mentre la destra, conservatrice e soprattutto reazionaria, costituisce l’asse portante della politica nazionale per tutto il Novecento, e oltre.

Il nostro paese è naturaliter di destra, e quindi benevolente nei confronti di chi si colloca da quella parte. Apprezza, o forse soltanto accetta perché nell’ordine naturale delle cose, la diseguaglianza con una conseguente limitazione di diritti universali. Rimane invece diffidente se non ostile a chi ha propositi egualitari e tende al cambiamento,  non accettando l’inevitabilità delle diseguaglianze. Se poi, come è accaduto, premia chi vuole modificare il corso degli eventi, allora porta al potere acchiappanuvole  e demagoghi, disdegnando il vero riformismo, quello del New Deal e delle socialdemocrazie nordiche. Ora, per quanto le intenzioni di chi ha promosso questo governo fossero assai diverse, si sono poste le condizioni  di un nuovo trionfo della destra che coniugherà l’affarismo protoborghese con la rabbia dei sommersi dalla pandemia sociale.

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