Il governo ha approvato la riforma della Giustizia. Susciterà commenti e controversie: qui vorrei chiarire l’importanza della posta in gioco, facendo un passo indietro. Perché la domanda da cui partire è quanto le regole siano rispettate in Italia. Può sembrare una domanda impossibile, ma dal 1996 esiste un indicatore, elaborato dalla Banca mondiale, del grado nel quale in ciascun paese cittadini, imprese e autorità pubbliche generalmente rispettano le leggi, e confidano che gli altri le rispettino. La risposta è riassunta nel grafico in pagina.

L’asse verticale indica il livello del rispetto della legge, secondo una scala che va da 2,5 a –2,5. Per dare una misura, nel 2019 i primi due paesi erano Finlandia (2,02) e Norvegia (1,98), gli ultimi due Somalia (–2,35) e Venezuela (–2,32).

Le tre curve indicano l’Italia, la media dei suoi pari (Francia, Germania, Giappone, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti), e la media dei paesi balcanici (l’Albania e i sette stati emersi dalla dissoluzione della Jugoslavia). Il livello dell’Italia (0,28) è molto più vicino alla media dei Balcani (0,02) che alla media dei suoi pari (1,43). E questo è l’esito di una lunga discesa, durante la quale il divario tra l’Italia e i suoi pari è più che raddoppiato.

indicatore rispetto legge

Questo è un indicatore fondato su percezioni.

Sintetizza tutte le analisi disponibili, ma va preso con cautela. Nondimeno, la misura e la persistenza del divario che separa l’Italia dai suoi pari permettono di affermare che il problema è grave. E ciò è confermato da dati oggettivi, pienamente confrontabili, come quelli sull’evasione dell’Iva, che è disciplinata da regole europee uniformi: nell’ultima rilevazione disponibile, lo scarto tra l’Iva teoricamente dovuta e quella effettivamente versata è tra il 6 e l’8,6 per cento in Francia, Germania e Spagna: in Italia è del 24,5 per cento.

Lo scarso rispetto della legge affossa la crescita economica, imbriglia l’azione pubblica, e diffonde la sfiducia politica. È forse il più grave difetto del modo nel quale la società italiana è organizzata. Per dire che una comunità s’era incivilita, del resto, gli antichi dicevano che «si diede leggi», «si sottopose a leggi».

Il problema persiste perché troppi ne traggono benefici. Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, definisce il rispetto della legge come «ciò che impedisce ai pochi di rubare ai molti». Quello che osserviamo in Italia, infatti, è un fenomeno né casuale né neutrale: se le regole sono spesso violate solitamente c’è una ragione, e di frequente la ragione è che qualcuno, «i pochi», ne trae vantaggio a danno di altri, «i molti».

In democrazia questo problema non dovrebbe persistere, perché grazie al principio di maggioranza «i molti» dovrebbero essere in grado di premere sul sistema politico affinché il rispetto della legge sia rafforzato. In Italia il problema persiste perché anche la responsabilità politica è debole: il sistema politico ha poco da temere dalla critica pubblica, e può troppo facilmente scrollarsi di dosso la pressione dei cittadini. Esiste dunque un preoccupante grado di solidarietà di fatto tra l’élite politica – che ora include i Cinque stelle – e i beneficiari dell’illegalità, come evasori e corruttori, per esempio, o chi restringe artificialmente la concorrenza per lucrare extraprofitti.

È su questo sfondo che bisogna valutare la riforma della giustizia, e le discussioni che susciterà. E ciò vale soprattutto per la giustizia penale, che è meno importante di quella civile per lo sviluppo economico ma tocca temi più brucianti.

Suggerirei di tenere a mente questo grafico, quando ascolterete le opinioni delle categorie che più evadono le tasse (piccole imprese e lavoratori autonomi), praticano la grande corruzione (imprese che lavorano col settore pubblico), restringono la concorrenza (imprese con larghe quote di mercato, di frequente), e dei professionisti che le assistono o altrimenti ricavano vantaggi dalla lunghezza e complicazione delle procedure (avvocati, commercialisti, fiscalisti).

E visto che il dibattito disgraziatamente tende a organizzarsi sulla manichea divisione tra «garantisti» e «giustizialisti», chiarisco che non auspico una riforma che mandi più persone in carcere. Al contrario, sposo gli argomenti di chi sostiene che il carcere sia spesso controproducente, e in Italia si traduca pressoché sistematicamente in trattamenti irragionevolmente afflittivi, incivili e inaccettabili in una società che afferma la pari dignità delle persone: rei inclusi.

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