Ora non resta che la vera intervista impossibile: quella al premier Mario Draghi. Il colloquio tra Fabio Fazio e papa Francesco lascia dietro di sé una rivelazione laica: in questo paese, nell’èra del governo Draghi, il vero potere ininterrogabile è quello della politica.

In una inedita inversione tra la sfera profana e quella sacra, il pontefice, che è a capo della chiesa, regno di fede e dominio perciò dell’inspiegabile, va in tv e si mostra accessibile ai comuni mortali.

Mario Draghi, che è leader in un dominio, quello della politica, che si fonda sulla accountability e cioè sul dover render conto, preferisce restarsene nell’empireo dei migliori sottraendosi a domande e obiezioni.

Il papa ascolta e risponde, espone le proprie vulnerabilità perché conosce il segreto retorico dell’empatia: far sovrano chi ci ascolta, e su questo costruire la nostra sovranità. Un’abile strategia che disinnesca il populismo.

Il premier invece emana provvedimenti e poi salta le conferenze stampa; quando le organizza, è come se fossero concessioni. Ogni sua sillaba è sottoposta a esegesi. Pochi minuti sulla principale tv pubblica, un editoriale a doppia firma con il presidente francese: le apparizioni sono epifanie e il silenzio, anche quando è dovuto a forze di governo imbizzarrite, consente al premier l’alibi dell’autorevolezza. 

Pronunciare la fallibilità del governo Draghi è la vera eresia di questi tempi, tempi nei quali la politica ha abdicato a sé stessa. E in questo dislivello tra governati e governanti il populismo facilmente spopola.

«Draghi è la prova vivente che uno non vale uno», ha scritto un anno fa il direttore della Stampa, Massimo Giannini. Può restare lassù, nel regno della fede, perché il migliore si sa, è incontestabile. 

Ma questa è una resa collettiva. La resa di media e politica alla sacralità del leader salvifico. L’escatologia del governo tecnico ha una genesi precisa: si innesca oltre dieci anni fa, quando al potere si insedia Mario Monti.

In quel 2011, il discorso giornalistico ha adottato linguaggi e meccanismi narrativi paragonabili a quelli dei momenti di guerra. «Il cammino è terribilmente in salita», «le incognite sono numerose» ma «possiamo farcela», scriveva nel 2011 il direttore del Corriere della sera, Ferruccio de Bortoli: lo spread è la minaccia esterna e la nazione deve stringersi attorno alla bandiera. A beneficiare di questo rally ‘round the flag effect è il capo del governo: quando la nazione è a rischio, non c’è spazio per critiche e interrogativi. «L’Italia è chiamata su un sentiero stretto e difficile», si legge in un altro editoriale, dell’allora direttore di Repubblica Ezio Mauro, datato novembre 2011.

Là dove la politica fallisce, il tecnico è salvatore, inconfutabile e ininterrogabile: dieci anni dopo, l’arrivo di Mario Draghi al governo porta alle estreme conseguenze questa rinuncia alla politica. Dove Monti parlava, e appariva nei talk show, Draghi tace. Usa la strategia del silenzio: sono gli altri a parlare di lui.

Il giornalismo accoglie il premier con parole di fede: il «sorriso quasi angelico», «l’aria da gentleman affabile ma inafferrabile». La traslitterazione della politica, che è la gestione della cosa comune, in fede, che è devozione cieca, arriva a maturazione. Gli applausi dei giornalisti, le domande mancate, perché non vengono concesse e perché non vengono pretese: il più inintervistabile di tutti è l’uomo che guida il paese.

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