La crisi politica emersa nel corso delle elezioni quirinalizie riporta al più ampio tema della crisi del modello democratico, assai dibattuto in questi ultimi anni e trattato in modo analitico in un articolo di Massimo Cacciari apparso su La Stampa del 10 gennaio scorso.

Cacciari insiste sul lato giuridico-istituzionale del processo, indicando delle faglie su cui è difficile non concordare: crisi dei partiti, del parlamentarismo, dei corpi intermedi. Indica, poi, nel passaggio a un sistema presidenziale una via d’uscita dall’impasse.

Personalmente non ho alcuna idiosincrasia verso i sistemi presidenziali purché, come sottolinea Cacciari stesso, siano ben bilanciati.

Va detto, però, che la crisi del modello democratico non riguarda solo l’Italia e comprende anche democrazie presidenziali o semi-presidenziali assai consolidate come Francia e Stati Uniti, dove si notano processi di decomposizione politica analoghi ai nostri.

L’aspetto indicato da Cacciari appare, dunque, più un sintomo che la causa del problema. Almeno altri due piani andrebbero, a mio modo di vedere, compresi nell’analisi.

Il conflitto fra idee

Il primo è culturale: il blocco del processo decisionale che da noi costringe da vent’anni gli esecutivi a governare a colpi di decreti legge e ad appellarsi alla presidenza della Repubblica per risolvere emergenze nasce con la fine delle ideologie novecentesche.

Senza un quadro ideologico capace di indicare un fine dell’azione, la politica si è presto ridotta all’idea, tipicamente americana, di una campagna elettorale permanente. Se il processo sia stato innescato da un cambiamento di un elettorato sfinito da decenni di battaglie ideologiche, oppure dalla comparsa di nuovi attori politici è come chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina.

L’importante è sottolineare come il nuovo «format» abbia condotto a una polarizzazione sociale sempre più accentuata, che non ha mancato di riflettersi nelle diverse elezioni, portando allo stallo del processo decisionale a cui assistiamo oggi.

Ormai appare liso qualunque terreno di consenso comune, con un elettorato disposto a credere a qualunque cosa piuttosto che abbandonare la propria fazione. Dei tempi di pandemia si è scritto molto, ma che dire di quegli elettori che, imboccati dalla “Bestia” di Luca Morisi, confondevano i cadaveri dei neonati nei nostri mari con bambolotti messi lì apposta dalle élite che volevano la «grande sostituzione»?

Che dire dei deliri di QAnon che hanno portato un «manipolo di balordi» (copyright Joe Biden) a «marciare» verso Capitol Hill? Insomma il tessuto collettivo è lacerato da tempo e, se è vero che la forma a cui ci richiama Cacciari ha un’importanza decisiva, può essere risolto solo se si ricostituisce un terreno culturale comune.

Attorno a quale centro costruire questa che appare come una necessaria cosmologia politico-culturale è davvero arduo da capire. Certamente non bastano valori general-generici come l’ecologismo o l’ambientalismo, sempre buoni per ogni stagione, ma da conciliare con le necessità della produzione industriale o del consumo energetico.

Non c’è politica senza “potere”

C’è, poi, un ulteriore piano che ci pare utile per completare la riflessione di Cacciari. La politica ha senso se accompagnata all’idea di potenza, nel senso etimologico del «poter fare». E un governo è tale se «governa» i processi. Siamo sicuri che lo stato-nazione abbia un raggio tale da affrontare i problemi di un mondo interconnesso come il nostro? Il XXI° secolo ha già vissuto tre grandi crisi: terroristica, economica-finanziaria, sanitaria. E almeno altre due si intravedono all’orizzonte: climatica e demografica.

Ciò che abbiamo osservato è che la mancanza di coordinamento fra le nazioni ha aggravato a dismisura i problemi e le conseguenze. Abbiamo visto terroristi approfittare della mancanza di scambio fra le intelligence, investitori minacciare di spostare i capitali in caso di nuovi limiti alle speculazioni, appelli ignorati dell’Oms ad assumere misure di contrasto dopo la comparsa a Wuhan di un misterioso virus capace di indurre «polmoniti sospette».

Insomma, la crisi del modello democratico indicata da Cacciari è assolutamente condivisibile, ma la diagnosi va ulteriormente approfondita perché la cura sia efficace. Con un’appendice: a cominciare dal secolo scorso tante volte sono suonate a morto le campane della democrazia. Poi è sempre riemersa. Anche perché, checché ne dicano i suoi critici, crisi è forse il termine che più le è proprio.

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