Polonia, Ungheria e Slovenia, tre paesi membri dell’Ue, non intendono accettare le condizioni che deriverebbero dalla partecipazione al Recovery fund. A Bruxelles si tratta, e si troverà il modo di superare l’impasse. Ma il tema è più vasto, e forse segna un’epoca. È l’epoca conclamata della “democrazia illiberale”?

Il termine di democrazia illiberale, che ha cominciato a circolare alla fine del Novecento, è poi stato fatto proprio da Viktor Orbán, il leader ungherese. «Dobbiamo abbandonare i metodi e i princìpi liberali nell’organizzazione di una società», ha dichiarato nel 2014, “stiamo costruendo uno stato volutamente illiberale, uno stato non liberale».

Democrazia illiberale non è dunque una etichetta coniata dagli osservatori; è una rivendicazione alta e forte, che vale la pena di indagare, perché intende spezzare un nesso per noi quasi automatico, tra voce del popolo e istituti di garanzia.

Su quel nesso è costruita la Dichiarazione dei diritti dell’Onu del 1948, e quindi l’universalità dell’ordine mondiale. Una universalità fin dall’inizio assai instabile, tuttavia, perché minata da un lato dalla profonda diversità culturale dei paesi aderenti all’Onu, certo non tutti fedeli all’idea liberale, e dall’altro dal principio della sovranità nazionale degli stati.

Per capire la democrazia illiberale occorre dunque partire da lontano, da molto lontano. Ci sarà infatti un motivo se Orbán ha dichiarato che «i regimi autoritari come quelli di Russia, Cina e Turchia sono il futuro». Per il leader ungherese il futuro dunque non è nelle integrazioni regionali come l’Ue.

Le frontiere resistono

Intanto, la sovranità degli stati. Nonostante le formali dichiarazioni, i mille accordi, le convenzioni, e ogni sorta di pratiche transnazionali, rimane il fatto che princìpi e istituzioni non riescono a bucare le frontiere. Lo chiarì il delegato cinese ad una conferenza convocata a Bangkok nel 1983 quando una apposita commissione dell’Onu discusse una possibile torsione “asiatica” dei suoi princìpi. I diritti, dichiarò il delegato, non sono qualcosa di inerente alla persona umana, e sono concepibili nella misura in cui lo stato li conceda, e non mettano in crisi l’ordine e la stabilità di un paese.

Condizioni simili sono state avanzare da vari stati – per esempio molti stati islamici – sospettosi dell’individualismo occidentale. Quando poi molti paesi africani e asiatici vollero includere tra i diritti fondamentali il “diritto allo sviluppo”, chiarirono che si doveva respingere «ogni tentativo che miri a legare diritti umani e fornitura di aiuti allo sviluppo». A monitorare il rispetto dei diritti si dedicarono da allora varie Ong – si pensi ad Amnesty International – peraltro senza alcuna capacità di forzare le sovranità nazionali.

Questo cominciano col dire Polonia, Ungheria e Slovenia – ma altri ce ne sono: anche se fondata su patti sottoscritti, una ingerenza esterna va rifiutata come pretesa di dominio. E’ il fulcro della vulgata populista contro le istituzioni europee, e in primis contro la preponderanza della Germania, verso la quale paradossalmente si rivolge il sentimento anticomunista d’un tempo.

Jarosław Kaczyński, il presidente del polacco partito conservatore Diritto e Giustizia, equipara le critiche che vengono oggi dalla Germania agli interventi sovietici del 1956 e del 1968, e lo stesso fa Viktor Orbán, da giovane ardente militante anticomunista, che fin dal 2002 (due anni prima dell’ingresso dell’Ungheria nell’Unione) ha dichiarato che “la patria non si piega al dominio straniero”. Insomma, la patria non si invade e non si compra.

L’argomento agitato contro il Recovery fund è simile a quello dei paesi “in via di sviluppo”: copriteci d’oro, ma non chiedeteci di rispettate i diritti. Il problema però – uno soltanto dei problemi – è che l’Europa ha fatto dei diritti la sua cifra identitaria, la sua legittimazione costitutiva.

I diritti sono l'essenza dell’Europa

A fissare i confini dell’Unione non è la comune matrice culturale – giusto o sbagliato che fosse, non si volle introdurre in costituzione la radice cristiana -, e nemmeno la configurazione geografica o la continuità territoriale, ma appunto l’ordinamento dei diritti.

Su quel fronte, il Bosforo ha resistito; dopo lunghe trattative, la Turchia è rimasta fuori dall’Unione, l’Europa non si è estesa fino a confinare con la Siria, l’Iraq e la Persia, e Erdogan si è vòlto a coltivare un nuovo islamismo mediterraneo. Il Mediterraneo è il fronte meridionale, e al di là del nostro mare i paesi arabi, anche se “democratici” e aderenti all’ONU, ignorano lo stato di diritto, come ben ci mostra la vicenda di Giulio Regeni.

Diversa evidentemente è la condizione dei paesi dell’est europeo, separati da più incerti confini. L’Ue è nata a ovest. Ma si poteva ragionevolmente sostenere che i decenni cupi della conquista sovietica non avessero cancellato la pur cangiante identità mitteleuropea di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria. A risvegliarla, ad aggiornarla, dopo il 1989 si mosse tutto un lavorìo di giuristi e di apposite istituzioni.

Nel 1990, in vista dei processi di democratizzazione dell’universo ex comunista fu istituita una Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto, nota come Commissione di Venezia, organo consultivo del Consiglio d’Europa. Furono così adottate carte costituzionali conformi agli standards europei e ben dotate di istituti di garanzia. In un quindicennio i paesi dell’est comunista hanno superato tutte le prove per l’ammissione all’Ue: dialettica politica, alternanza, crescita economica, una solida società civile, un vivace dibattito culturale. Così dal 2004 Polonia, Slovenia e Ungheria sono membri dell’Unione.

FILE - In this Oct. 15, 2020, file photo, Hungary's Prime Minister Viktor Orban arrives for an EU summit at the European Council building in Brussels. The European Union still hasn't completely sorted out its messy post-divorce relationship with Britain — but it has already been plunged into another major crisis. This time the 27-member union is being tested as Poland and Hungary block passage of its budget for the next seven years and an ambitious package aimed at rescuing economies ravaged by the coronavirus pandemic. (AP Photo/Olivier Matthys, Pool, File)

Effetto Orbán

Poi cambiò il vento. In Ungheria, Viktor Orbán, già primo ministro tra il 1998 e il 2002, quando perse le elezioni, le vinse nel 2010, e poi ancora nel 2014 e nel 2018. Nel 2015 in Polonia si è affermato il partito di destra «Diritto e giustizia». In entrambi i paesi sono seguite incisive riforme e pratiche illiberali: modifiche costituzionali, censura sull’informazione e controllo delle emittenti, restrizione del diritto di associazione, epurazioni nella polizia, perquisizioni illegali etc.

In Polonia, un progetto di legge vòlto a limitare, praticamente impedire, l’aborto, sta suscitando una forte opposizione. Una legge ispirata da un acceso patriottismo nazionalista ha proibito l’uso dell’espressione «campi di sterminio polacchi».

Per Witold Waszczykowski, ministro degli Esteri polacco tra il 2015 e il 2018, così il paese sta curando le sue malattie dopo “25 anni di indottrinamento liberale”. La Commissione di Venezia ha ammesso che oggi difficilmente i due paesi sarebbero accolti nell’Unione. Ma i trattati non prevedono l’espulsione, e le procedure di ammonimento e censura, che pure sono state avviate nel caso dell’Ungheria, sono farraginose e in alcuni stadi richiedono l’unanimità. E una eventuale espulsione significherebbe il dissolvimento dell’Unione assai più che nel caso della Brexit, che non ne minava le fondamenta. 

Uno degli aspetti della battaglia illiberale è l’attacco all’indipendenza della magistratura e delle corti costituzionali, poteri che non sono diretta emanazione del popolo – e perciò non sono mai piaciuti ai populisti -, ed anzi hanno la funzione di frenare la “dittatura della maggioranza”.

E’ una costante dei regimi autoritari e degli aspiranti autocrati, da Trump, che manovra il suo potere di nomina dei giudici, a Giorgia Meloni, che ha ribadito sul Foglio di condividere la battaglia contro lo “straripamento del giudiziario rispetto a governo e parlamento che la Polonia sta cercando di evitare”: la sua critica è infatti diretta non tanto verso alcune disfunzioni della nostra magistratura, o verso il comportamento di determinati magistrati, ma verso il potere giudiziario in quanto tale, come a suo dire  mostrerebbe ciò che è avvenuto allorché i ministri della repubblica “provavano a frenare l’immigrazione irregolare”, e i magistrati “si accordavano sul sabotaggio” dell’azione del governo. 

La deriva religiosa

Ecco dunque i tratti, tutt’altro che episodici, della democrazia illiberale. E’ democrazia nel senso che è guidata da leaders eletti dal popolo, e con largo seguito popolare (perciò si suole chiamarli “populisti”). Intendono però governare liberi dagli impacci degli istituti liberali, con forti appelli nazionalisti, solitamente a base religiosa.

Si affermano in paesi che hanno consuetudine democratica, come accade con Erdogan, che ha islamizzato la Turchia di Atatürk (segno eclatante la recente riconversione in moschea della basilica di Santa Sofia a Istanbul), o con Narendra Modi, che inaugurando un tempio Hindu a Ayodhya, nell’India dei Gandhi e dei Nehru, ha dichiarato che “l’attesa dei secoli è finita”.

Si capisce allora cosa ha inteso dire Orbán quando ha parlato di «democrazia cristiana illiberale»; non pensiamo, ha detto, ai canoni della fede, ma a «le caratteristiche della vita, per come si sono da essi originate” e che riguardano “la dignità umana, la famiglia e la nazione».

La democrazia liberale, ha spiegato, sostiene modelli adattabili di famiglia, mentre quella cristiana poggia sulle fondamenta del modello cristiano di famiglia; la democrazia liberale è a favore dell’immigrazione, mentre quella cristiana è contraria, perché «il cristianesimo non cerca di raggiungere l’universalità attraverso l’abolizione delle nazioni, ma per mezzo della conservazione delle nazioni».

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