L’articolo 3 della Costituzione italiana sancisce l’uguaglianza di tutti i cittadini. Nei due paragrafi che lo compongono si percepisce il delicato lavoro di compromesso fra le varie anime politiche che contribuirono alla nostra legge fondamentale. Il primo paragrafo esprime il concetto di uguaglianza formale, tipicamente associato alla cultura liberale e conservatrice: la garanzia di pari dignità di fronte alla legge di tutti i cittadini. Il secondo è più vicino all’idea socialista di uguaglianza sostanziale, che riconosce la presenza di ostacoli diversi al raggiungimento di traguardi economici e sociali, e implica un ruolo di riequilibrio per lo stato.

Nel corso degli anni, tuttavia, e soprattutto dopo la caduta dei regimi comunisti in Europa, la parte politica che più si era riconosciuta nel principio di uguaglianza sostanziale ha adottato un approccio meno interventista, e più fiducioso delle capacità del mercato di garantire uguaglianza dei punti di partenza.

Questione di talento

Un assunto più o meno implicito della teoria economica classica è che le forze di mercato per loro natura premino il talento attraverso la competizione e gli incentivi delle imprese (per esempio) ad assumere chi più meritevole; questo processo genera sia crescita sia giustizia sociale perché offre a tutti, indipendentemente dalle loro origini, le stesse opportunità. Facendo propria questa visione, il pensiero dominante nella sinistra dagli anni Novanta in poi ha individuato in alcuni correttivi, per esempio nella garanzia formale di pari accesso all’educazione e alla sanità, gli interventi necessari per livellare i punti di partenza. Il mercato, il cambiamento tecnologico, e la crescita economica avrebbero fatto il resto. In una recente raccolta di saggi sulla disuguaglianza, Olivier Blanchard, già professore al Massachusetts Institute of Technology e capo economista al Fondo monetario internazionale, e Dani Rodrik, professore ad Harvard, classificano questi interventi come relativi alla fase di “pre-produzione”, cioè riguardanti lo stadio precedente l’attività economica vera e propria.

E tuttavia, proprio da forze quali la rivoluzione digitale e la globalizzazione, sono emerse sfide e contraddizioni ai quei principi di pari opportunità diventati di comune accettazione, e limiti alla capacità degli interventi pre-produttivi di correggere distorsioni. La transizione digitale ha portato con sé sconvolgimenti nella struttura produttiva e nella natura del lavoro. Da un lato, sono state premiate professioni che richiedono alti livelli di educazione. La velocità del cambiamento tecnologico, inoltre, è tale che il sistema educativo fatica a integrare le nuove conoscenze nei programmi. Questa “gara” fra educazione e tecnologia, come la hanno definita Claudia Goldin e Larry Katz (entrambi ad Harvard), genera scarsità delle competenze necessarie, e un aumento dei compensi per i pochi che le posseggono. Inoltre, il crollo dei costi di comunicazione grazie alle tecnologie digitali consente, per esempio, a pochi “super” manager o banchieri di gestire divisioni o imprese sempre più grandi e servire mercati più ampi. I proventi per questa classe di “superstar”, come già l’economista di Chicago Sherwin Rosen aveva teorizzato quaranta anni fa, sono cresciuti a dismisura.

Dall’altro lato, l’automazione di molte attività, dalla manifattura a certi servizi, ha ridotto la domanda di lavori qualificati, ad alto valore aggiunto, ma che non richiedono alti livelli educativi. Per chi era impiegato in questi settori, l’alternativa oggi sono spesso lavori con condizioni salariali e contrattuali meno attraenti. La caduta della domanda di quei lavori “intermedi”, specie nel mondo occidentale, è stata ulteriormente accelerata dal processo di globalizzazione e spostamento della produzione in altri paesi. Ma macchine sempre più “intelligenti” si stanno sostituendo al lavoro umano ovunque nel mondo. Le analisi di studiosi come Daron Acemoglu (Mit) e Pascual Restrepo (Boston University) fanno temere che i “nuovi” lavori che la digitalizzazione ha creato non basteranno a compensare quelli persi.

L’aumento delle diseguaglianze

La polarizzazione del mercato del lavoro, a sua volta, ha fatto aumentare le diseguaglianze di reddito e ricchezza. Gli stessi principi economici sempre più condivisi dallo spettro politico e ideologico, tuttavia, attribuiscono un valore positivo alla disuguaglianza in una economia di mercato: se la disuguaglianza è il risultato di differenze di merito una volta garantite condizioni minime di pari opportunità, ci sarà più crescita e, soprattutto, più mobilità sociale e opportunità diffuse, perché il talento non dipende dalle condizioni di partenza o dal retroterra socioeconomico di origine.

Ricerche recenti mostrano però una realtà diversa. Miles Korak (University of Ottawa) ha evidenziato che la mobilità sociale è in realtà inferiore in paesi con maggiori disparità: maggiore è la disuguaglianza, più essa tende a perpetuarsi di generazione in generazione. Raj Chetty (Harvard) ha mostrato come il luogo di nascita e l’estrazione socioeconomica dei genitori sempre più determinino le opportunità economiche dei figli, in termini di reddito e ancor prima di accesso a certe attività particolarmente lucrative perché traggono vantaggio dalle nuove tecnologie. Sembra, insomma, che da una società meritocratica si stia in qualche modo tornando a una società “patrimoniale”. Lucas Chancel della Paris School of Economics evidenzia che oggi non è più tanto il paese di residenza a determinare le opportunità economiche di un giovane, quanto il suo retroterra familiare indipendentemente dalla nazionalità.

Puntare tutto sull’educazione

Le dinamiche economiche che la digitalizzazione e la globalizzazione hanno accentuato aiutano a spiegare questa relazione tra disuguaglianza e mobilità sociale. In particolare, la polarizzazione del lavoro, con da una parte professioni di alto livello che richiedono educazione di élite, dall’altra lavori a basso valore aggiunto, spinge le famiglie a investire sempre più nella formazione dei figli. L’educazione formale, anche quando garantita a tutti, è tuttavia solo una parte di questi investimenti. Chi può permetterselo avvia i propri figli alla lettura di libri, alla conoscenza delle lingue, ai viaggi studio, ad attività extra-curricolari che aumentano non solo le loro conoscenze, ma anche le capacità “non cognitive”, come l’abilità di lavorare in gruppo e gestire situazioni complesse. Garey e Valerie Ramey della University of California definiscono questi processi una gara senza fine («rat race», in inglese).

Gara che, oltre a essere impari e inaccessibile alla maggior parte delle famiglie, è sempre più incerta anche per le classi agiate: se a metà del secolo scorso, la stragrande maggioranza dei figli poteva aspettarsi di ottenere una condizione economica migliore di quella dei genitori, questo non è più vero oggi. Daniel Markovits (Yale University) chiama questa dinamica “Trappola della meritocrazia”.

Indipendentemente dalle loro capacità innate, quindi, chi viene da famiglie benestanti accumula un vantaggio rispetto a chi non ha i mezzi in partenza. Non solo questo perpetua le disuguaglianze invece di bilanciare i punti di partenza, ma comporta anche uno spreco di tanto potenziale talento; Raj Chetty e i suoi collaboratori concludono che la società potrebbe perdere tanti potenziali “Einstein” a causa di queste dinamiche.

Insomma, sembra proprio che per garantire effettive pari opportunità, agire politicamente sui punti di partenza richiede di andare oltre la fase “pre-produttiva” con la garanzia di alcuni servizi come l’educazione formale. I saggi raccolti da Blanchard e Rodrik discutono interventi che, in alcuni casi, sono volti a garantire uguaglianza oltre allo stadio iniziale, e se non proprio fino al punto di arrivo, quanto meno per un percorso più lungo. Queste politiche, secondo alcuni, includono stabilire un salario minimo dignitoso e un reddito universale.

Altri suggeriscono politiche industriali e tributarie che favoriscano la creazione e il mantenimento di lavori accessibili a molti, ad alto valore aggiunto, e dignitosi nel salario e nelle condizioni: ad esempio, supporto pubblico di certi settori, una tassazione che dissuada le imprese dall’eccessivo investimento in automazione che sostituisce il lavoro, e un rafforzamento del ruolo dei lavoratori attraverso la contrattazione collettiva o la compartecipazione nelle decisioni aziendali. Altri ancora individuano in una tassazione più progressiva, che riguardi anche il patrimonio e le eredità, un meccanismo di riequilibrio delle condizioni di partenza per le future generazioni.

In un video che Kamala Harris ha pubblicato pochi giorni prima delle elezioni presidenziali, la futura vicepresidente descrive la differenza tra uguaglianza ed equità. Secondo Harris, il principio di uguaglianza, intesa come parità dei punti di partenza, non è più sufficiente per garantire effettive pari opportunità. Bisogna invece riconoscere che certe disparità – di condizione economica, ma anche di genere o razza – sono ormai così radicate che un’agenda progressista deve andare oltre, e promuovere piuttosto l’equità attraverso interventi anche differenziati. Senza arrivare all’egalitarismo, c’è ampio spazio, e oggi meno imbarazzo di trent’anni fa, per sostenere politiche che accompagnino le persone oltre il punto di partenza per garantire loro adeguate possibilità future.

Si tratta, sia chiaro, di una posizione tutt’altro che universalmente accettata, soprattutto da settori più conservatori e moderati dell’opinione pubblica, come dimostra un recente intervento critico del politologo Charles Lipson sul Wall Street Journal. Una disuguaglianza, questa di vedute e proposte politiche, che è quanto mai benvenuta dopo un lungo periodo di eccessiva somiglianza tra destra e sinistra.

© Riproduzione riservata