Ha ragione Vincenzo Visco, economista e politico versato per l’elaborazione ideologica (in senso buono), nel suo intervento uscito su Domani. Merita discutere e sottoporre a critica l’assunto secondo il quale il liberalismo sarebbe di sinistra. Come recitava il titolo di un fortunato saggio di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. O comunque merita sgombrare il campo da confusione ed equivoci lessicali e concettuali.

Storicamente, quantomeno nel Novecento, tra lo statuto ideale della sinistra - il cui stigma (Norberto Bobbio docet) è la lotta per l’uguaglianza - e la visione liberale (con la sua matrice utilitaristica) vi era, in radice, un rapporto dialettico, non un facile connubio.

Altra cosa è l’auspicio che destra e sinistra, entrambe, iscrivessero le differenze che le separano e ingaggiassero la competizione tra loro dentro un quadro condiviso, quello che taluni definiscono di democrazia liberale e che, forse, meglio sarebbe qualificare come democrazia costituzionale. In concreto: separazione dei poteri, Stato di diritto, rispetto per le minoranze.

Dimenticare il comunismo

La locuzione “sinistra liberale”, invalsa per esempio nella stagione veltroniana prima e renziana poi del Pd (non così con l’Ulivo, più comprensivo di spiccate sensibilità sociali), è figlia della suddetta sottovalutazione della tensione dialettica tra i due termini.

Le parole contano: da un lato sono rivelatrici delle sottese visioni più o meno consapevoli e riflesse, dall’altro non sono prive di effetti, producono torsioni nelle idee e nei comportamenti.

Intendiamoci: vi sono diverse versioni della sinistra, anzi, appunto, delle sinistre al plurale, ma sarebbe più appropriato distinguere tra sinistre riformiste con cultura di governo e sinistre massimaliste, testimoniali e persino velleitarie.

Ma perché liberali? Si può spiegare.

Visco ha accennato, per esempio, a taluni eccessi di uno Stato più gestore (spesso inefficiente) anziché regolatore. Ma ha pesato anche una sorta di complesso, quasi la cura ossessiva di rimarcare l’abbandono di ogni residuo ancoraggio al modello di civiltà alternativo (quello del comunismo), tragicamente fallito e sconfitto nella storica confrontazione con il modello capitalistico a base liberale.

E’ rivelatrice la circostanza che a indulgere nello zelo nel professarsi liberali di sinistra siano soprattutto taluni di coloro che un tempo militavano nel Pci-Pds-Ds.

Un riflesso condizionato,  quasi il bisogno di farsi perdonare gli errori giovanili (vedi Walter Veltroni che non sarebbe mai stato comunista…). La subalternità di certa sinistra all’egemonia del paradigma liberale è altresì originata dalla preoccupazione di rimarcare il congedo da una visione schematicamente classista dei rapporti economici e sociali.

E’ indubitabile che il conflitto sociale, nell’era post-fordista, abbia assunto forme nuove e più complesse. E tuttavia esso non è scomparso: la società è abitata da interessi materiali diversi e spesso configgenti ed è compito della politica rappresentarli e governarli, selezionarli gerarchizzandoli.

Il conflitto dimenticato

L’irenismo sotteso alla locuzione “sinistra liberale” non rende altresì giustizia all’asprezza del conflitto e, segnatamente, alle lotte politiche e sociali, condotte da partiti e sindacati, che hanno propiziato i cosiddetti “trenta (anni) gloriosi”.

Il nostro welfare universalistico è stato una conquista, non una concessione, frutto di un compromesso avanzato tra capitalismo e democrazia, che, come usa dire, non è stato un pranzo di gala.

Una democrazia che ha camminato sulle gambe di forze socialiste e cattoliche che con i liberali hanno incrociato le armi (politiche).

La subalternità culturale prima che politica della sinistra al paradigma liberale non è stata priva di conseguenze.

Penso alle politiche pubbliche meramente adattive anziché coraggiosamente alternative in materia di lavoro e welfare e dunque un’attenzione privilegiata ai diritti civili (di matrice individualistica, apprezzati dalla “borghesia riflessiva”) a discapito dei diritti sociali. Con la conseguente contrazione della base sociale ed elettorale della sinistra e soprattutto la rottura pratica - non solo sentimentale - con i ceti popolari, con i suoi tradizionali referenti sociali (la cosiddetta sinistra delle aree ztl).

Dunque, un deficit di rappresentanza, connesso a una distorsione della propria autorappresentazione come terminale dell’establishment, che ha dischiuso praterie alle formazioni populiste, destra e Cinque stelle.

Complici il diffuso disagio sociale e il vento dell’antipolitica. Occupando la sinistra lo spazio e la risorsa simbolica liberale essa, di riflesso, sul fronte opposto, non aiuta a incoraggiare la maturazione di una destra conservatrice dai tratti liberali ed europei che gioverebbe alla nostra democrazia.  

E’ da sperare che la nuova fase della globalizzazione che meno si presta a una lettura ignara dei suoi costi e lo spartiacque della pandemia che ha finalmente prodotto una svolta della Ue suggeriscano alle sinistre un affrancamento teorico e pratico dal paradigma neoliberale.

Propiziando un ripensamento critico del rapporto tra mercato, società e Stato che si rinviene anche nella enciclica Fratelli tutti di Papa Francesco. Più laica del «dogma di fede neoliberale».  

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