Il neoliberismo è morto sul piano teorico con la crisi finanziaria del 2007/2008 che ne ha decretato il fallimento concettuale, ma non è morto sul piano pratico, anche per le capacità che ha avuto di ibridarsi con varie forme di populismo, con cui condivide l’avversione alla Stato e alle istituzioni pubbliche, l’insofferenza per le regole e gli apparati normativi a cui preferire l’autoregolazione del mercato, la chiusura individualista ed egoista.

Su tutto ciò si basa la disinvoltura con cui Matteo Salvini pretenderebbe di far coesistere sovranismo e “rivoluzione liberale”. Le sirene del neoliberismo, però, hanno già ripreso a cantare anche a sinistra, visto che in molti lamentano, pur di fronte all’emergenza pandemica, l’invadenza statale e chiedono di essere rassicurati sul fatto che lo Stato si ritirerà non appena usciremo dalla pandemia.

Ma non è proprio la rivoluzione costituita dal Next Generation EU a porre gli investimenti pubblici al centro?

Dunque, per attrezzarci al cambio di paradigma necessario, anziché riproporre un blairismo post mortem, non è ozioso tornare a riflettere sui motivi strategici dell’eccesso di condiscendenza alla tesi che il neoliberismo fosse di sinistra tipico del blarismo degli anni Novanta, identificato da Vincenzo Visco come una delle cause fondamentali delle crisi delle sinistre in questo scorcio di secolo.

La convinzione che il neoliberismo fosse di sinistra si è radicato in contesto che vide le forze che tentarono di unirsi nel Partito Democratico – dopo l’Ulivo, esperienza ben diversa innanzitutto sul piano della consapevolezza programmatica – assai inclini a sorvolare su elementi critici delle culture fondative, convinte che l’osannato clima postideologico e postidentitario avrebbe consentito di lasciare sullo sfondo alcuni nodi problematici.

Così non è stato, molti nodi ancora attendono di essere sciolti. Sono nodi presenti in tutte le formazioni che in Europa e in Italia si collocano a sinistra, comprese quelle di origine cattolico-democratica: si pensi al tradizionalismo e al conservatorismo che tarpava le ali alle correnti di sinistra della Dc e oggi grava sul magistero di papa Francesco.

Nel Pci (da cui io provengo) l’amalgama meno produttivo è stato quello tra una fascinazione totalizzante dell’”autonomia del politico” e una visione dei processi economici basata sull’esaltazione della concorrenza e l’indifferenza o l’ostilità agli apparati e alle imprese pubbliche, frutto della persistenza di una matrice veteromarxista e terzinternazionalista critica del “capitalismo monopolistico di Stato”.

Da un lato,  storicamente la cultura del vecchio Pci è stata molto influenzata dal liberalismo di Labriola, Croce, Einaudi, un liberalismo che si saldava con residui terzinternazionalisti “classisti” e “crollisti” poco atti a far cogliere il dinamismo e le trasformazioni.

A sinistra, le prime impostazioni innovative – con significativi germogli di quel keynesismo introdotto in Italia da Amintore Fanfani – si colgono nella Cgil, prima con il Piano del Lavoro del 1949 (che venne accolto con una paradossale convergenza tra l’ostilità di Alcide De Gasperi e della Dc di centrodestra e la freddezza di Togliatti e del PCI, con la sua singolare inclinazione “liberal-einaudiana”) e poi con l’elaborazione sul neocapitalismo degli anni ’60 e quella successiva.

La generalità degli esponenti del Pci rimase estranea ai tentativi di programmazione messi in atto con il primo centrosinistra e veicolati da Ugo La Malfa, Giolitti, Ruffolo, Lombardi.

Per gli eredi del Pci il persistente riferimento al “finalismo rivoluzionario” finiva con l’esentare da quella ricostruzione analitica accurata che la articolazione di un quadro autenticamente riformatore richiede, in particolare per quanto riguarda una “teoria dello Stato e delle istituzioni” di cui i comunisti furono carenti (nell’inconscio operava il pregiudizio secondo cui “lo Stato borghese si abbatte e non si cambia”), senza che ciò impedisse il proseguimento dell’opera riformista nelle regioni rosse, la cui rappresentanza rimase però sempre minoritaria ai vertici nazionali.

Così l’ondata neoliberista che è arrivata anche in Italia dalla metà degli anni Ottanta non ha trovato molti argini lungo il proprio cammino e le sinistre affrontarono inermi le flessibilizzazioni del mercato del lavoro, la “riduzione del perimetro pubblico”, le liberalizzazioni e le privatizzazioni.

Oggi dobbiamo liberarci del tutto da anni di nefasta teorizzazione della superiorità delle pratiche di governance su quelle di government (esplicitamente indicate, e auspicate, come metodi di “amministrativizzazione” mediante “depoliticizzazione”) e dall’idea di limitare le funzioni pubbliche solo alla regolazione e alla tutela della concorrenza puntando sul ruolo strategicamente “innovatore” dello Stato.

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