Ora tutti vedono senza filtri cos’è in realtà la tanto decantata exit strategy. Per chi non lo sapesse non si tratta soltanto della teoria in base alla quale è stata presa la decisione di ritiro dall’Afghanistan, rovinosa e dolorosa al punto da divenire una débâcle per l’Occidente e una lenta morte per le afghane e gli afghani che ci avevano creduto. Non si tratta nemmeno di una questione soltanto militare.

La exit strategy è la severa e cieca dottrina che si applica ad ogni tipo di intervento e azione occidentale all’estero. È stata inventata anni fa nel settore privato e ha pervaso tutte le amministrazioni occidentali, fino alla cooperazione allo sviluppo.

Praticamente significa che ogni qualvolta un soggetto della società civile (o delle istituzioni di base come i comuni, le autonomie locali ecc.) vuole dare un aiuto o iniziare una partnership di qualsiasi tipo con altri paesi o altre genti, immediatamente si alza un dito intimidatorio e si sente perentoriamente chiedere: «d’accordo, ma qual è la vostra exit strategy?». Il che significa: «Quando finisce? quando ve ne andate?».

Ovviamente non si usano termini così brutali ma si invoca la sostenibilità oppure la ownership, cioè l’appropriazione da parte dei locali. In questa maniera ogni programma di cooperazione (economica, culturale, sociale, agricolo, tecnologico, umano ecc. fino a militare) è sottoposto alla “legge della fine”: se si vuole un finanziamento o un benestare istituzionale occorre dire quando si termina sgombrando il campo. Se manca tale elemento si è tacciati dell’orrido delitto di “creare dipendenza”.

E’ la mentalità individualista e liberista applicata al mondo: ogni forma di partenariato va sottoposta al fatto che ognuno deve badare a sé stesso. Non è possibile immaginare un legame che si prolunghi nel tempo senza limiti. Tale dottrina inizia a casa propria: troppi anziani a casa loro costano, meglio l’istituto, e così via. Si constata già l’assurdità di tale dottrina per ciò che concerne la salute o l’educazione, settori che non si possono sottomettere alla sostenibilità economica mai e in nessun luogo.

Ciò che accade a Kabul in versione drammaticamente macro, mostra cosa accade ogni giorno da molti anni in versione micro: quanti programmi di cooperazione e partenariato sono stati lasciati fallire in nome della exit strategy!

Di tali storie di fallimenti di belle iniziative esiste una lista infinita. Ci sono cose che non si possono e non si devono mai calcolare sotto la logica gretta e contabile della sostenibilità economica. Ci sono programmi che diventano legami, amicizie, solidarietà che travalicano ogni concetto di distanza, di fuoriuscita, di fine. Durano per sempre. Ci sono dipendenze che diventano reciproche: come amicizie arricchiscono tutti.

Qual è il contrario della exit strategy? È la strategia dell’adozione. Quando (come nazione, come istituzione, come cittadinanza, come Ong, come associazione, come libere persone ecc.) si prende un impegno con altri, si deve mantenerlo, se necessario tutta la vita. Non averlo fatto in Afghanistan, non aver voluto adottare quella gente, ha portato all’attuale tradimento. Da ora in poi a nessuno venga più in mente di parlare di una qualunque exit strategy.

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