A dicembre scorso la Danimarca ha cancellato tutte le attività di ricerca di nuovi giacimenti di petrolio nel  Mar del nord come parte di un piano che la porterà ad abbandonare le fonti fossili entro il 2050. “Non sarebbe coerente con la nostra ambizione di raggiungere la neutralità climatica entro il 2025 continuare a cercare, produrre e vendere combustibili fossili”, ha dichiarato all’epoca il ministro per la Transizione climatica Dan Jorgensen. Una scelta non indolore che farà perdere al paese, soltanto di gettito fiscale dalla tassazione del petrolio, circa l’equivalente di 2 miliardi di euro, il 2 per cento delle entrate del fisco danese.

Due giorni fa l’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) ha pubblicato un rapporto che dice, in sostanza, che tutti i paesi occidentali dovrebbero seguire l’esempio della Danimarca per rispettare gli obiettivi di neutralità climatica entro il 2050. La domanda di carbone, e dunque la sua produzione, dovrebbe ridursi del 90 per cento, quella di gas dimezzarsi e quella di petrolio scendere del 75 per cento. Le imprese petrolifere devono praticamente azzerare gli investimenti per la ricerca di nuovi giacimenti, subito. 

Tutto questo, secondo il capo dell’Aie Fatih Briol, non sarebbe un problema per l’economia, anzi: la crescita del Pil aumenterebbe dello 0,4 per cento. L’alternativa è non rispettare gli obiettivi di neutralità climatica al 2050, nonostante tutte le promesse dell’Unione europea e dei vari vertici internazionali.

La notizia del report dell’Aie ha avuto grande risalto nella stampa internazionale, il Financial Times ha scritto che messaggi come quello dell’agenzia non sono certo una novità ma sono utili, soprattutto di questi tempi: perché il Covid ci ha dimostrato che di fronte alle emergenze sappiamo prendere misure radicali, e la crisi climatica è un’emergenza spalmata su qualche decennio che richiede scelte altrettanto nette. In Italia, a parte la prima pagina di Domani, silenzio quasi assoluto sul report. Non lo cita neppure il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, in un lungo colloquio con il Foglio nel quale invita a essere pragmatici. Parla di micro-reattori a fissione nucleare, di termovalorizzatori che inquinano meno dei trasporti di rifiuti a lunga distanza, di rinnovabili.

Le ragioni del pragmatismo sono tante, l’uscita dalle energie fossili può essere forse inevitabile ma può anche generare traumi se attuata troppo in fretta, rinunciare in un colpo solo sia al petrolio che al gas può creare molti squilibri. Però i tanti pragmatici come Cingolani devono prendere atto di una singolare coalizione che si sta creando: le minoranze organizzate e battagliere come i Fridays for future chiedono soluzioni nette con transizioni molto rapide, e la stessa richiesta arriva dal livello internazionale, dall’Aie come dai vertici Cop.
Chi si considera la vittima delle politiche troppo timide sulla crisi climatica e chi guarda la questione senza doversi preoccupare del costo politico delle scelte pretende svolte rapide e nette in stile Danimarca. In mezzo ci sono i governi nazionali e le grandi imprese connesse alla politica. Uno strano equilibrio che pare sempre più fragile.

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