Da secoli ormai non siamo più cacciatori- raccoglitori. Alleviamo gli animali (spesso sottoponendoli a condizioni orribili) e coltiviamo le piante in maniera intensiva, diminuendo la biodiversità. Lo facciamo prevalentemente per nutrircene, anche se potremmo assicurarci le energie sufficienti a vivere in altri modi. Potremmo mangiare solo piante, per esempio, coltivandole in maniera meno intensiva e curandoci della diversità di specie vegetali. Potremmo mangiare animali solo raramente. E non è detto che perderemmo piaceri, data la molteplicità di modi deliziosi per cucinare cibi diversi dalla carne animale che tutte le tradizioni culinarie del mondo hanno tramandato.

Ma dei nostri progenitori cacciatori abbiamo conservato il gusto dell’asimmetria. Per loro, c’era la sfida di procurarsi da vivere combattendo con animali più grossi, feroci e pericolosi con le armi dell’ingegno. Per noi, la perversa sfida opposta: giocare con animali che, quale che siano le loro dimensioni e capacità, sono sempre inferiori a tutta le tecnologia del cacciatore moderno. Una specie di parco-divertimenti per quel poco di primitivo che ancora conserviamo. Il brivido dell’inseguimento senza la paura di essere presi. La sensazione del possesso senza neanche il gusto del nutrirsi della preda, molte volte.

A sostegno della lobby

Questo vizio post-moderno, questo cascame di una tradizione fuori posto, è l’unica giustificazione possibile per chi va a caccia ancora oggi, nell’Occidente industriale avanzato, partendo dalla vita confortevole delle città. Eppure la caccia come sport è ancora piuttosto diffusa, tanto da costituire forse un serbatoio elettorale, e sicuramente un segmento di mercato per i produttori delle attrezzature (dalle armi all’abbigliamento adatto). Questo deve avere indotto il governo a una serie di azioni a sostegno della lobby dei cacciatori.

Per esempio, il Senato ha approvato due emendamenti al Decreto Asset che sostanzialmente annullano il divieto di caccia con munizioni al piombo (estremamente tossico anche per specie non cacciabili) nelle zone umide, cioè fiumi, laghi e acquitrini, in violazione del regolamento europeo in materia, concedono alle regioni la possibilità di non rispettare i pareri dell’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale sui calendari venatori e impediscono ai Tribunali amministrativi di sospendere i calendari ritenuti illegittimi.

La Commissione europea ha avviato una procedura Pilot (un anticipo di procedura di infrazione) contro lo Stato italiano, per queste ed altre questioni simili (il termine per rispondere era pochi giorni fa) e a tutt’oggi non è dato sapere che cosa il governo abbia risposto. Alcune associazioni ambientaliste (fra cui la Lipu) hanno chiesto invano al presidente La Russa di dichiarare inammissibili gli emendamenti, del tutto estranei alla materia del Decreto, e ora procederanno a una nuova denuncia alla Commissione europea.

La caccia alla volpe

Nel Regno Unito è in corso da anni una discussione sulla caccia alla volpe. I difensori della tradizione sono i nostalgici del mondo che fu, che si sentono eredi della nobiltà dell’Impero britannico. Ma Oscar Wilde, che non era secondo a nessuno per snobismo, definì la caccia alla volpe «l’indicibile in caccia dell’immangiabile». La tradizione della caccia agli uccelli da noi ha forse radici meno altolocate e desta ricordi meno elitari – la Stagione della caccia di Camilleri o la battuta di caccia durante la quale viene ucciso il farmacista Manno in A ciascuno il suo di Sciascia.

Ma rimane una tradizione ormai incomprensibile. Non c’è alcun valore cavalleresco nell’uccidere poveri animali inermi. Non c’è alcuna necessità nutritiva. Non c’è bioregolazione possibile, anzi questo tipo di caccia rischia di minare equilibri fragili e di fare estinguere specie preziose e di rara bellezza. C’è una sola ragione: i cacciatori e gli armieri votano. Forse gli altri votanti, che sono sensibili alla ragione e al buon senso, dovrebbero fare sentire la loro voce.

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