Tutta l’Italia è al momento commossa per la tragica morte del piccolo Carlo Mattia all’ospedale Sandro Pertini di Roma. Un’autopsia sul corpo del neonato deve ancora essere effettuata e vari aspetti della vicenda rimangono da chiarire. Per ora, sappiamo che il bambino è nato sano in apparenza e di peso adeguato (3,4 Kg) il 7 gennaio 2023 e che tre giorni dopo è stato trovato senza vita in un letto di ospedale accanto alla madre profondamente addormentata.

Le cause della morte non sono chiarissime: si è ipotizzato che la mamma si sia addormentata mentre allattava e che lo abbia involontariamente soffocato. Il presidente della società italiana di Neonatologia, Luigi Orfeo, ha parlato di “collasso post natale” e ha definito il caso una tragica e rarissima fatalità.

Che il dramma del Pertini sia un evento rarissimo o no, ci sono però pochi dubbi secondo la letteratura scientifica che il rischio di eventi tragici di questo tipo sia fortemente aumentato da quello che possiamo chiamare «bed-sharing involontario»: il caso in cui un adulto stremato si addormenta inconsapevolmente con un neonato in braccio, specialmente se ciò avviene in uno spazio inadeguato come un letto di ospedale.

L’American academy of pediatric, istituzione di riferimento in materia, sconsiglia la condivisione del letto e raccomanda di mantenere il neonato in posizione supina su una superficie solida e non inclinata e evitare letti morbidi e surriscaldamento.

Le norme interne agli ospedali

I protocolli degli ospedali vietano il bed-sharing per queste ragioni. Il protocollo applicato dall’ospedale Pertini però prevedeva la condivisione della stessa stanza da parte di mamme e neonati 24 ore su 24 – una pratica che nella letteratura internazionale viene chiamata «rooming in».

Secondo i genitori del bambino, il personale sanitario si aspettava che la mamma si prendesse cura del bambino giorno e notte praticamente senza aiuto: non solo allattandolo al seno “a richiesta”, ma anche cambiandolo, cullandolo, pulendolo ecc. La mamma sostiene di aver suonato più volte il campanello di allarme.

Dopo 17 ore di travaglio e complicazioni da parto, non si reggeva in piedi e non si sentiva in grado di occuparsi da sola del bambino. Avrebbe chiesto tre volte alle infermiere di portare il bambino nella nursery dell’ospedale per poter dormire qualche ora, e tutte le volte le sarebbe stato negato.

Questo articolo non pretende di stabilire le responsabilità della tragedia, che si spera siano chiarite dall’inchiesta promossa dalla famiglia del piccolo Carlo. La nostra intenzione è di mettere l’accento su una dimensione del problema che va al di là dello specifico caso e che è stata poco discussa dalla stampa italiana.

Cos’è il rooming in

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Nel praticare il rooming in, l’ospedale Sandro Pertini seguiva le raccomandazioni della Baby friendly hospital initiative (Bfhi), un’iniziativa lanciata nel 1991 dall’Unicef per promuovere l’allattamento al seno. Come hanno dichiarato gli stessi dirigenti dell’Asl di Roma 2, «l’Oms e l’Unicef promuovono questo modello organizzativo, che permette al piccolo e alla neomamma di condividere la stanza 24 ore su 24».

Gli ospedali che seguono in maniera integrale le raccomandazioni della Bfhi ricevono un accreditamento dall’Unicef. I criteri per l’accreditamento sono molto rigorosi e attualmente solo una trentina di ospedali italiani l’hanno ottenuta. Il Pertini non pare essere tra questi, ma, come sottolineano le dichiarazioni dei dirigenti, aveva allineato alcune delle sue politiche all’iniziativa.

Il Bfhi è anche promosso da varie associazioni professionali italiane, come la già citata società di neonatologia. Il presidente Luigi Orfeo ha ribadito in risposta alla tragedia di Roma che «per noi è assolutamente fondamentale difendere il percorso di “rooming in”» e che «per promuovere un adeguato allattamento al seno è assolutamente necessario che il bambino stia con la mamma 24 ore su 24, dal primo momento della nascita». Per i difensori della Bfhi come Orfeo, queste pratiche sono indispensabili al successo dell’allattamento al seno e i loro rischi sono trascurabili.

E se invece il rispetto dei protocolli Unicef fosse parte del problema, invece che della soluzione? Quando la Bfhi è stata lanciata, era vista come una risposta progressista alle discutibili pratiche di alcuni ospedali negli anni Settanta e Ottanta.

In quegli anni i neonati, anche se in buone condizioni di salute, venivano spesso convogliati nelle nurseries di ospedale subito dopo il parto e molte mamme non li vedevano per giorni. Le donne ricevevano raramente indicazioni o aiuto su come avviare l’allattamento al seno: di solito, alla prima difficoltà si vedevano allungare un biberon. Oltre trent’anni dopo però, è venuto il momento di chiedersi quali cambiamenti sono stati introdotti dalla Bfhi e se sono stati davvero così positivi.

I sostenitori

«Praticare il rooming-in 24 ore al giorno» è uno dei «dieci passi per il successo dell’allattamento al seno» promossi dalla Bfhi. I sostenitori lo rappresentano come un modello che restituisce umanità rispetto al modello precedente che medicalizzava in modo eccessivo parto e maternità.

Questa visione del rooming in si basa però su un equivoco. Nessuno vuole tornare alla separazione forzata o negare la possibilità della puerpera di scegliere il rooming in. Ma per molte madri, soprattutto primipare, il parto è anche un evento lungo ed estenuante.

Riposo e sonno sono importanti tanto per il proprio benessere che per la loro capacità di occuparsi del bambino e per molte partorienti l’assistenza ospedaliera dovrebbe dare la possibilità di avere almeno qualche ora di riposo.

Il rooming in promosso dall’Unicef però non è una scelta, ma una nuova imposizione in senso contrario. In molti ospedali baby friendly, in particolare nel Regno Unito, le nurseries ospedaliere sono state completamente eliminate. In altri ospedali – questo pare il caso del Pertini – le nurseries ancora esistono ma il loro uso viene fortemente scoraggiato.

I critici

LaPresse

Secondo la stampa Usa, che ha pubblicato negli ultimi dieci anni vari articoli critici sulla Bfhi e riportato molte testimonianze simili a quella della famiglia di Carlo, anche se con esiti non altrettanto tragici, nella maggioranza degli ospedali baby friendly americani è estremamente raro che un neonato in buona salute sia ammesso alla nursery. Insomma, negando alla mamma del piccolo Carlo la possibilità di riposarsi, gli operatori del Pertini sembra abbiano seguito l’approccio Bfhi.

Il dottor Joel Bass e altri due specialisti di pediatria del Newton Wellesley Hospital del Massachusetts hanno riassunto le conclusioni della loro ricerca sulla Bfhi e il rischio di effetti negativi imprevisti con un monito che sembra scritto per il caso del Pertini.

Secondo i pediatri americani, un’applicazione troppo rigida delle pratiche Bfhi «può inavvertitamente portare una puerpera potenzialmente esausta o sotto effetto di sedativi ad allattare il suo bambino di notte mentre è a letto, quando non è fisicamente in grado di farlo in maniera sicura. Di conseguenza, esiste il rischio che il bambino si addormenti con la madre su una superficie morbida e surriscaldata o in posizione prona».

Gli stessi esperti che vorrebbero difendere il rooming in coercitivo si sono involontariamente contraddetti commentando la vicenda. Il dottor Orfeo ad esempio, dopo aver sostenuto che per due giorni la mamma avrebbe tenuto con sé il neonato «senza problemi», riconosce che il bambino sarebbe probabilmente ancora vivo se la donna non si fosse addormentata – ma questo evento non era prevedibile, se non inevitabile, considerate le condizioni della donna e il rifiuto del personale sanitario di permetterle di riposarsi?

Oltre al rooming in, un’altra raccomandazione della Bfhi è stata ripetutamente messa sotto accusa: l’obbligo di non dare al neonato latte formulato se non “indicato per ragioni mediche”. Negli Stati Uniti, Christie del Castillo-Hegyi, dottoressa specializzata in medicina di emergenza e mamma di un bambino disabile, ha creato la fondazione Fed is best (letteralmente “Nutrito è meglio”, un gioco di parole sullo slogan “Breast is Best” usato dai promotori dell’allattamento al seno) per promuovere la sensibilizzazione al rischio della denutrizione neonatale.

Quando aveva pochi giorni di vita, il primo figlio di del Castillo-Hegyi ha rischiato letteralmente di morire di fame perché la madre ha sperimentato un ritardo nella produzione del latte materno, una condizione alquanto comune, che interessa tra il 20 per cento e il 40 per cento delle partorienti.

Prima di essere ricoverato in terapia intensiva, il bambino era stato visitato da vari professionisti sanitari, che avevano incoraggiato la madre a continuare l’allattamento esclusivo al seno – non rendendosi conto che la donna non aveva praticamente latte – e a non somministrare latte formulato.

Alla fine, è stato proprio un biberon a salvare la vita al bambino – ma del Castillo-Hegyi è convinta che i suoi attuali problemi di sviluppo provengano dai danni cerebrali che l’ipoglicemia e l’ittero da denutrizione hanno provocato.

Nel caso del piccolo Carlo, i giornali non hanno menzionato difficoltà nell’allattamento però la mamma ha descritto un bambino che dormiva poco o nulla e passava la maggior parte del tempo a piangere – un comportamento che potrebbe suggerire una situazione simile a quella descritta dalla dottoressa del Castillo-Hegyi.

Le problematiche

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Infine, l’etichetta Baby friendly è di per sé fuorviante. Tutte le misure di implementazione dei “dieci passi” e le valutazioni del successo dell’iniziativa vertono su indicatori dell’allattamento al seno esclusivo, quali il numero di donne che hanno avviato l’allattamento al seno o il numero di bambini che non ha ricevuto supplementazione con latte formulato.

Nessuno di questi indicatori è realmente baby friendly: la salute e il benessere del bambino non sono messi al centro dell’attenzione, e non sono il criterio principale di successo. L’assioma è che il successo dell’allattamento al seno esclusivo e “a richiesta” sia indirettamente la migliore garanzia della salute del bambino e della mamma.

Anche ammettendo che l’efficacia della Bfhi nel promuovere l’allattamento al seno sia indiscussa (non tutti gli studi concordano, ad esempio una valutazione del programma effettuata nel Regno Unito pare avere dato risultati deludenti), i benefici dell’allattamento non sono così netti come i promotori della Bfhi li presentano.

La ricerca sull’allattamento al seno è soggetta a molte complicazioni metodologiche, in particolare il fatto che la maggior parte degli studi non sono sperimentali ma sono basati sull’osservazione della popolazione. Nel 2001, lo studio Promotion of breastfeeding intervention trial (Probit), condotto in Bielorussia, ha cercato di randomizzare l’allattamento al seno.

Gli autori hanno applicato in alcuni ospedali del paese, scelti in modo casuale, un protocollo di promozione dell’allattamento ispirato alla Bfhi. L’intervento ha avuto successo, nel senso che, nel gruppo che ha ricevuto sostegno, le mamme hanno allattato i bambini più a lungo e fatto meno ricorso al biberon. Tuttavia, l’impatto sulla salute dei bambini è stato modesto. I bambini allattati al seno hanno riportato meno casi di gastroenterite e di dermatite atopica nei primi anni di vita.

Per quanto riguarda altri presunti benefici in termini di salute e abilità cognitive, non sono state trovate differenze chiare tra i due gruppi, una conclusione confermata anche da studi successivi che hanno cercato di valutare gli effetti a lungo termine dell’esperimento.

L’economista Emily Oster, che è diventata famosa per le sue analisi divulgative della ricerca quantitativa su gravidanza e infanzia, conclude riguardo all’allattamento al seno che «ci sono alcuni benefici nella prima infanzia in termini di digestione ed eruzioni cutanee, che si possono ritenere importanti o meno. Ma ciò che l’evidenza scientifica ci dice è che la percezione popolare che il latte materno sia una sorta di sostanza magica che porterà tuo figlio a essere sano e brillante è semplicemente non corretta».

Minimizzare i rischi

Non tutti gli ospedali Baby friendly sono ovviamente uguali. Nel migliore dei casi, in cui il personale è sufficiente in numero e preparato e le regole del decalogo baby friendly sono applicate in maniera flessibile e con empatia verso i pazienti, i rischi possono essere minimizzati.

Ostetriche e infermiere possono aiutare la mamma a prendersi qualche ora di riposo anche in assenza di una nursery ospedaliera. Controlli regolari possono aiutare a identificare situazioni in cui la mamma è in difficoltà. Lo stato di salute del neonato può essere monitorato regolarmente e la nozione di supplementazione con latte formulato “indicata per ragioni mediche” applicata non appena a rischio di denutrizione.

Quando però i diktat baby friendly si sommano ad altri fattori di rischio, quali tagli al personale sanitario, restrizioni anti Covid eccessive, una cultura burocratica che privilegia la quantificazione dei risultati alla sicurezza effettiva dei pazienti, gli effetti perversi dell’approccio emergono. Il rooming in può diventare facilmente un modo per scaricare la responsabilità di un neonato vulnerabile su un altro soggetto vulnerabile – la neomamma.

Questo pare essere avvenuto al Pertini: i dirigenti sostengono che la mamma di Carlo aveva firmato un modulo con cui aveva dichiarato di essere informata dei rischi e di come fare per evitarli. Un simile approccio di “consenso informato” può però avere senso solo se la mamma ha un’alternativa – che sembra proprio che in questo caso non esistesse.

Casi come quello del Pertini sono estremi, ma sono la punta dell’iceberg rispetto a altri problemi meno visibili, quali la depressione o il disturbo post traumatico post parto tra le neomamme o il ricovero di neonati nati in perfetta salute per denutrizione.  

I problemi della Bfhi non sono accidentali. Sono intrinsechi a un modello per cui l’unica effettiva priorità è la promozione dell’allattamento al seno - che per giunta deve essere per forza esclusivo e a domanda - e nel quale la libertà di scelta delle madri su come prendersi cura del proprio bambino e nutrirlo non è presa in considerazione. È tempo di abbandonare la Bfhi e di percorrere altre strade.

Ci auspichiamo che la tragedia del Pertini e la morte del piccolo Carlo, che avrebbe potuto essere evitata se i genitori fossero stati ascoltati prima, stimolino una riflessione e un cambio di paradigma, a livello sia italiano che internazionale.

Da un paradigma per cui lo scopo principale dell’assistenza post parto è la promozione dell’allattamento al seno esclusivo, speriamo che si passi a un paradigma che mette la salute, la sicurezza e il benessere di bambino e partoriente al centro della scena e che sia effettivamente “amico del neonato” e della sua famiglia.


La Infant Feeding Alliance è stata creata nel Regno Unito da un gruppo di genitori per chiedere compassione, autonomia e sicurezza nella politica e nella pratica dell'alimentazione del lattante. Riteniamo che genitori amorevoli, dotati di informazioni equilibrate e scientificamente accurate, siano le persone migliori per decidere come nutrire i loro bambini. Ci battiamo per un approccio che soddisfi i bisogni delle famiglie e promuova il loro benessere. Siamo parte di un più ampio movimento internazionale su questi temi a cui appartiene anche la Fondazione Fed is Best.

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