In questi giorni si sta molto parlando di cosa avviene dopo il parto. E lo si sta facendo partendo da un terribile caso di cronaca: la morte di un bambino tre giorni dopo la nascita, all’ospedale Sandro Pertini di Roma. La madre era stata lasciata sola ad allattare il figlio e ha avuto un colpo di sonno. La procura sta indagando per omicidio colposo, con la donna che è considerata parte offesa. In un’intervista a Repubblica, ha detto: «Avevo chiesto più volte aiuto al personale per gestire il bambino, ma nessuno mi è venuto in soccorso. Mi hanno ignorata».

Finché le donne partorivano in casa con le levatrici, erano loro a decidere dove avrebbero dormito i neonati dopo il parto. In qualche caso li avrebbero tenuti vicini, altrimenti in una culla, più o meno vicina a loro. Con l’ospedalizzazione del parto diffusasi dal Dopoguerra, questa responsabilità della donna venne spostata sui reparti di ginecologia e pediatria, che nel corso dei decenni hanno sperimentato varie tecniche.

Inizialmente i neonati erano tenuti in “nidi” lontani dalle madri e dai visitatori, per proteggerli dalle infezioni e per lasciare che le madri riposassero dopo il travaglio. Questa tendenza si interruppe progressivamente a partire dagli anni Settanta, quando due pediatri americani, Kennell e Klaus, sostennero che la separazione tra madre e neonato alla nascita fosse all’origine di molti disagi nelle relazioni familiari, aumentasse l’insicurezza materna e privasse il bambino dell’amore e della cura della madre.

Erano gli albori della famosa tesi del bonding, fondata dai due pediatri sul paragone delle donne con gli ovini. Se entro quattro ore le capre e le pecore non si ricongiungono al piccolo, esse potrebbero non volersene occupare mai più. Lo stesso accadrebbe per le donne che non sono a contatto col piccolo entro sedici ore dal parto.

Il rooming-in

Negli anni successivi svolsero numerose ricerche per dimostrare in modo cristallino che fosse proprio la separazione delle prime ore tra madre e neonato a rendere più frequenti gli abbandoni, le percosse e gli abusi sui bambini. Inutile sottolineare quanto questa teoria terrorizzò moltissimi genitori che, non avendo potuto praticare il bonding, temettero che quelle famigerate prime ore di separazione fossero all’origine di tutti i problemi dei loro figli; per non parlare delle angosce aggiuntive che toccarono alle madri che avevano i neonati in terapia intensiva, o ai genitori adottivi.

Per stemperare le preoccupazioni dei genitori, gli stessi due pediatri nel 1982 corressero la teoria affermando – quasi banalmente – che tutti i genitori si attaccano in ogni caso ai propri figli.

Definita da molti una finzione scientifica (Eyer 1996), la teoria del bonding ha comunque avuto un forte successo negli ospedali, soprattutto in decenni di tagli al servizio sanitario. Negli anni Novanta i nidi erano quasi completamente spariti, a vantaggio del rooming-in, ovvero dell’usanza di tenere i neonati accanto alla madre per tutta la degenza senza interruzione, nella stessa stanza e condividendo almeno in certi momenti lo stesso letto. Veniva offerta come “servizio aggiuntivo” l’eliminazione di spazi dedicati ai neonati e del relativo personale.

Teorie sbagliate

Illustrazione di Marilena Nardi

La “pubblicità” a favore del bonding si è inoltre alleata alla pubblicità per l’allattamento al seno e per il parto senza anestesia. In molti corsi pre-parto e manuali per gravide si narra infatti che queste tre condizioni si sostengono reciprocamente e favoriscono la formazione della perfetta “diade” madre-bambino.

Molte ricerche in realtà dimostrano il contrario: uno studio del 2019 (Hairstone) ha osservato che i disturbi dell’umore e del sonno legati all’allattamento al seno possono ostacolare il bonding, e uno studio del 2022 (Binyamkin) ha addirittura rilevato che le emozioni legate al figlio siano migliori per le donne che abbiano beneficiato dell’epidurale.

Poco importa: alle madri viene ancora raccontato che il modo in cui passeranno le prime ore dopo il travaglio, il tipo di latte con cui nutriranno il figlio, da dove lo avranno fatto uscire e con quanto dolore, determinerà ineluttabilmente il destino di quell’essere umano.

Certo, per alcune donne avere il figlio accanto dopo il travaglio può essere un conforto, ma per altre può essere solo una fatica imposta e inconcepibile, da cui sarebbe meglio sollevarle per il bene loro e dei neonati. Se una madre crolla di sonno dopo 17 ore di travaglio mentre viene spinta ad allattare il neonato al seno ad ogni costo e finisce quindi per soffocarlo, come è appunto successo al Pertini di Roma, non si tratta di una tragica fatalità.

Tutto sulla madre

Del resto sembra che l’incoraggiamento al bonding e al rooming-in segua la stessa logica di tutte le pratiche che preservano l’esclusività assoluta della madre nel nutrimento e nella cura dei figli, quindi la sua completa responsabilità. Tutto ciò che potrebbe accompagnare un’evoluzione profonda delle dinamiche domestiche e della distribuzione del lavoro di cura viene ostacolato già a partire dal parto e dal post parto.

Tutto ciò che permetterebbe alle madri di delegare una parte della fatica e della responsabilità su altri membri della famiglia o sulle istituzioni viene considerato in fondo come superfluo, quando non colpevole. Non è solo il caso dei congedi di paternità striminziti o degli asili nido inaccessibili: la mancanza di assistenza adeguata durante il parto e il post-parto, la privazione della possibilità per le madri di scegliere come vivere questi momenti, nel limite della sicurezza garantita dai medici e dalle ostetriche, fa parte della stessa logica che scarica su di loro tutte le fatiche e le responsabilità.

Non è detto che il rooming-in sia la migliore soluzione per tutte, né che lo siano le nursery. Dai nidi degli anni Sessanta al 2023 una costante tuttavia è stata rimasta immutata: nonostante le madri siano tenute per principali responsabili di tutto ciò che può andare storto, né in un caso né nell’altro hanno potuto scegliere.

© Riproduzione riservata