In sei righe scarse il sottosegretario Vincenzo Amendola ha dato una rilettura sinteticamente lucida e controintuitiva della traiettoria americana degli ultimi quindici anni. Joe Biden, ha detto Amendola al Corriere della Sera, «è almeno il terzo presidente americano di seguito a scegliere i propri impegni geopolitici in base a priorità strettamente nazionali».

L’affermazione merita un approfondimento. Amendola suggerisce che il presidente oggi sotto accusa perché fa scelte che «nascono in America e per l’America» si muove nel solco del suo predecessore, Donald Trump, raccontato generalmente come anomalia assoluta e fulminante patologia del sistema democratico, il quale a sua volta si muoveva in quello tracciato dal suo predecessore, Barack Obama, che nell’oleografia dei sentimenti collettivi è sempre un Mosè che marcia verso la terra promessa, ma a conti fatti è stato il presidente del “nation-building at home”, del “buy American”, del “pivot to Asia” e dell’Europa come provincia della quale disinteressarsi.

Alla vigilia dell’elezione di Trump, David Axelrod, uno dei più stretti consiglieri di Obama, aveva formulato una teoria generale dell’alternanza presidenziale per spiegare il successo di Trump: dopo due mandati, i perversi desideri degli elettori si affidano a figure opposte a quelle che hanno governato prima. All’anziano Eisenhower succede l’aitante Kennedy, il puritano Carter prende il posto del diabolico Nixon (con l’interregno di Ford) e così via.

Ma il drammatico svolgersi degli eventi di questi giorni indica, ed è quello che Amendola nota quasi en passant, che il primo presidente nero e il primo presidente arancione avevano in comune più di quanto si sia disposti ad ammettere. Kabul non è caduta nel giro di una settimana: le vicende dell’Afghanistan non raccontano solo delle tragedie dell’oggi e delle inquietudini di domani, ma illuminano anche la storia di ieri, dominata da un’introflessione americana che Obama ha guidato con piglio deciso e Trump ha proseguito con modalità che in mancanza di aggettivi più calzanti possono solo essere definite trumpiane.

“We the people”

Obama è stato il presidente che ha avviato il ritiro americano dai teatri di guerra, che ha fraternamente schiaffeggiato gli alleati Nato dicendo che dovevano investire percentuali più serie di Pil nella difesa; per bocca del suo segretario di Stato, John Kerry, ha detto che «l’èra della dottrina Monroe è finita», alludendo all’antica strategia per tenere gli europei fuori dalla sfera del continente americano e che poi nel Novecento è stata aggiornata più volte in senso globale.
Obama ha preso decisioni «in America e per l’America», e si potrebbe aprire un dibattito sul fatto che questa politica di ritorno all’interesse nazionale non fosse altro che una restaurazione della dottrina realista americana di default, dopo la stagione, quella sì anomala, del post Guerra fredda, dominata da un rinnovato spirito wilsoniano che ha fatto convergere gli internazionalisti liberal della scuola di Clinton e i neoconservatori che consigliavano Bush.

Le due tribù concordavano sulle intenzioni della guerra al terrore, il dissenso era sull’esecuzione. Questa rilettura dell’obamismo potrebbe indurre anche qualche riflessione sulle ricadute per la politica italiana. Il Pd, il partito di Amendola, è nato sui presupposti culturali dell’obamismo e ora si duole delle conseguenze naturali di quella filosofia. Il rifondatore Walter Veltroni aveva mutuato anche lo slogan dal candidato più cool di sempre. Un ostacolo di traduzione aveva trasformato il “Yes we can” di Obama in “si può fare”, soluzione che aveva fatalmente lasciato fuori la parola decisiva, “we”, che faceva eco al “we the people” che apre il preambolo alla Costituzione. Non era un “noi” generico, ma il “noi” del popolo americano.

 

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