In queste settimane è sempre più evidente, su scala globale, che il disordine è accettato come fosse ordine. Elenco alcuni elementi. Fra un mese la Chiesa cattolica si troverà ad affrontare un evento straordinario, ma vissuto come ordinario, quello di un Giubileo in tempi di guerra. Significa, dal punto di vista pratico, un probabile spostamento di masse, di credenti e di fedeli in pellegrinaggio.

Dal punto di vista politico, ma anche della condizione umana e della società, ci sarà lo stridente contrasto fra un anno di celebrazione di pace cristiana di fronte a una permanente condizione distruttiva di guerra, condizione ormai non modificabile nel breve; perché ormai è passata, nella pubblica opinione e nelle scelte dei governi, la concezione che le guerre non sono più combattute con armi convenzionali o non convenzionali, ma tutto è diventato convenzionale: la distruzione dei sistemi informativi, di quelli di sicurezza, persino l’uso delle armi nucleari sta diventando convenzionale.

È quindi saltata la separazione fra condizioni belliche regolate dalle armi convenzionali e da quelle non convenzionali, e questo in un momento in cui le grandi aree di autonomia politica tradizionalmente definite, come l’Europa, sono indefinibili.

L’Europa non c’è più

L’Unione europea ha un parlamento e una Commissione che si baloccano fra nomine e equilibri che dovrebbero soddisfare ambizioni personali o posizioni di prestigio di governanti decaduti o in via di decadenza. Ma la verità è che l’Europa non c’è. O nel migliore dei casi non è in condizione di creare il suo strumento di indirizzo politico del sistema produttivo e quello di sicurezza.

Il voto del Parlamento europeo di venerdì scorso sull’Ucraina è il primo voto di una maggioranza politica inesistente. È il primo effetto che la sconclusionata strategia di Ursula von der Leyen e del presidente del Ppe Manfred Weber ha prodotto, cercando voti a destra e tra gli antieuropeisti. Con il bel risultato che per prendere meno di trenta voti dal melonismo europeo ne ha perso circa cento della sua originaria maggioranza, quella espressa con il voto del luglio scorso sulla conferma della presidente.

Churchill e un voto in più

A Winston Churchill, nell’occasione di un voto di fiducia per la costituzione di un suo governo, capitò di avere due voti oltre il minimo necessario per avere la maggioranza. E a chi osservava che il sostegno a questo suo nascente governo fosse debole, rispose che aveva un voto in più di quanto occorre in un paese forte e libero.

Ma Ursula Von der Leyen non può dire che ha otto voti in più rispetto a ciò che occorre per governare l’Europa. Il voto sull’Ucraina ci dice che le maggioranze di governo devono avere una doppia unità politica e strategica per il futuro: quella di governo e quella di una opposizione di alternativa. Oggi mancano queste condizioni, che sono essenziali e vitali per garantire la soluzione delle questioni calde che pesano sull’ordine mondiale.

Dal canto loro, i socialdemocratici europei e fra loro l’italiana Elly Schlein, non posso esercitare un compito gravoso senza il rischio di un ritorno a politiche di compromessi e di rinuncia al ruolo che nel passato fu sempre quello delle lotte socialista e democratiche.

Lo sbando dall’America

Ora dunque succede che quest’Europa non è in grado neanche prevedere quali saranno nel futuro quei rapporti che in passato tradizionalmente hanno condizionato il suo sviluppo, l’alleanza nel mondo occidentale e atlantico. Perché non sa dove l’America andrà nei prossimi mesi e anni, anche perché nella stessa America c'è incertezza e sbandamento.

Intanto viviamo in una guerra che non abbiamo il coraggio di dichiarare, ma che c’è, e la dimostrazione è che infatti cerchiamo di stabilire tregue provvisorie, come quella in Libano, che servono per lo più per interrompere temporaneamente lo sbandamento. E poi si riprende stancamente il gioco dell’attesa: qualcosa succederà.

È necessario che tutti coloro che hanno responsabilità di dare un indirizzo, e anche l’informazione, ristabiliscano una condizione di verità: dobbiamo avere il coraggio di dire che la pace o è un trauma per tutti o non ci sarà. Ma per essere un trauma per tutti, tutti devono sapere e ammettere che non siamo in pace: siamo in guerra, e la pace che dovrà venire dovrà innanzitutto cancellare la viltà per cui non abbiamo la forza di dire che siamo in una condizione di guerra non dichiarata, ma che opera comunque, con i suoi effetti deleteri e devastanti.

Il Giubileo e la guerra

In casuale – forse – coincidenza con l’apertura dell’anno giubilare, serve che si sveglino e si smuovano le forze che hanno un qualche aggancio alle ragioni profonde spirituali e ideali. Insieme a quelle che hanno la responsabilità della difesa e della sicurezza di ciò che residua del vecchio modello dell’organizzazione statuale. Queste forze debbono saper rompere il destino della rassegnazione.

Servono voci che denuncino questo stato di debolezza. Il futuro è sfuggito di mano a tutti, il presente non è nelle mani di nessuno, il passato è stato nelle mani sbagliate. Noi in Italia abbiamo una condizione particolare: le mani sbagliate governano ancora e il malgoverno porta in definitiva ad abbandonare l’idea che il mondo possa essere regolato dall’intelligenza e dalla ragione, e che sia regolato invece dalla spinta casuale degli eventi.

Si torni alla ragione, o al miracolo giubilare di dichiararsi consapevoli che l’attuale ordine vive nel ricordo di un equilibrio democratico che non c’è più. Torna la grande questione: la democrazia è sufficiente da sola a risolvere i problemi dell’umanità? Oppure ha bisogno anche della forza? Ecco il punto di ricerca, ed ecco il punto di equilibrio: forza e contemporaneamente democrazia, perché le democrazie deboli muoiono.

© Riproduzione riservata