Alcuni giorni fa ero in taxi e mi sono ritrovato mio malgrado a godere delle tirate scandalizzate di una conduttrice di Radio Monte Carlo: «Stiamo impazzendo, rasentiamo il ridicolo e l’assurdo, sono inorridita».

Il motivo del tracollo nervoso della speaker era la (presunta) decisione della piattaforma Disney+ di censurare alcuni classici d’animazione (Dumbo, Gli Aristogatti, Peter Pan), vietandoli ai minori di sette anni, a causa di alcuni stereotipi razzisti da essi veicolati.

Come sempre si tirava in ballo la “dittatura del politicamente corretto” sulla base di una fake news, dato che Disney in realtà ha solo deciso di accompagnare i cartoni in questioni con un disclaimer iniziale, consigliando la visione in compagnia di un adulto che aiuti a filtrare i passaggi denigratori nei confronti di neri, asiatici e nativi nordamericani presenti nei cartoni in questione.

Ma la conduttrice non si è rassegnata: «E quindi non possiamo più chiamarli pellerossa? E come li chiamo, scusa? Solo nativi americani!?» E poi, incitando il pubblico: «Stiamo esagerando o no?», pubblico che prontamente ha risposto con scomposti messaggi vocali, tutti spernacchiamenti e sberleffi: «Secondo me c’è qualcuno che non sa come passare le giornate», «Stiamo impazzendooo».

Qualche ora dopo coincidenza ha voluto che abbia intercettato l’ultima puntata di Mucchio selvaggio, il podcast di Fedez e Luis Sal (che nel frattempo si sta avvicinando al milione di visualizzazioni) dove ospite era il professor Alessandro Barbero, e l’ossessione trasversale per il presunto politically correct è sbucata anche lì.

Lo storico e i conduttori dopo pochi minuti sono infatti finiti a parlare della statua di Indro Montanelli e mi ha sorpreso che Barbero abbia liquidato la questione dicendo: «A pelle a me sembra una cosa bruttissima che se uno non ti piace allora lo cancelli». Aggiungendo anche che a lui queste reazioni contemporanee paiono «una follia».

Colpisce come il tema venga affrontato sempre più spesso – anche dai progressisti – con così poca serietà, mistificando, volontariamente o meno, i termini della questione.

Non si tratta infatti di “cancellare”, ma di smettere di mantenere in vigore in automatico tutto ciò che arriva dal passato per il semplice fatto che arriva dal passato, di vedere i rapporti di potere che hanno dato forma a molto di ciò che ci sta alle spalle. Vederli, rilevarli, e tenerne conto, alla luce di centri d’opinione e di decisione maggiori e diversificati rispetto a quelli esistenti in passato.

Tra rimuovere statue celebrative e cancellare il personaggio in questione dalla storia – oggi, nel 2021 – c’è una bella differenza, e uno storico credo riesca a coglierla agilmente.

La vera cancel culture è quella da cui discendiamo, quella che per secoli ha sottomesso e relegato ai margini donne, persone non bianche, individui LGBT.

Che oggi si provi a rileggere con più ampiezza e senso delle gerarchie gli eventi e i prodotti culturali non dovrebbe che rincuorare chi tiene alla democrazia e a una società non oppressiva.

Soprattutto se non si appartiene alle comunità tradizionalmente marginalizzate sarebbe bene porsi in una condizione perlomeno di ascolto, coltivando il beneficio del dubbio. Impressiona il piglio con cui invece molti si scagliano contro temi che riguardano la vita e la dignità di altre, di altri, riducendo il tutto a idiosincrasie e sfottò.

Il problema è che, ovunque si guardi, si ha la conferma che restiamo un paese avvinghiato al quarto comandamento, onora il padre e la madre, sempre, qualunque cosa abbiano fatto.

Come se vivessimo nella miglior società possibile, come se quello che abbiamo sotto gli occhi non fosse la diretta conseguenza di sottovalutazioni, errori, ingiustizie, e di una fedeltà unilaterale a un copione che ha imposto ruoli e modelli ereditati e ritenuti intoccabili, poiché “normali”, o persino “naturali”.

Il vero pensiero unico è quello che ancora ritiene che il margine della nostra libertà sia da contrattare instancabilmente con le strutture di potere che hanno la sola legittimazione del tempo. L’ideologia imperante è quella che ritiene che il passato in definitiva conti più del futuro.

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