I giornali hanno dato rilievo alla “benedizione” di Prodi a Elly Schlein come federatrice del centrosinistra. Ma la mia opinione è che non sia questa la notizia principale. Più importante, a mio avviso, è il tenore singolarmente politico del discorso di Prodi alla convention del Pd. Centrato su questioni decisive e controverse. Chi ha dimestichezza con lui conosce la sua abituale prudenza, il suo linguaggio sempre controllato, una certa ritrosia nella esposizione politica.

Da gran tempo egli non è più un attore politico in campo, si è ritagliato la parte di personalità che, grazie alla sua esperienza e alle sue relazioni, dispone di visione ed elargisce saggi consigli a chi oggi tiene la scena. Ecco perché ciò che semmai merita segnalare è il contenuto politico di cui ha intessuto il suo recente intervento in casa Pd. Naturalmente come nello stile di Prodi, affidato a cenni e a parole sempre misurate. Ne sottolineo alcuni.

L’orizzonte è naturalmente l’Europa. Prodi non si rassegna all’idea della sua minorità politica e, segnatamente, a che la Ue abdichi all’esercizio di una sua relativa autonomia e terzietà rispetto alle guerre in corso. In un passaggio, egli ha espresso le sue riserve rispetto a chi si limita a confidare nell’escalation militare. Chi se non l’Europa può e deve mettersi alla testa di una mediazione politica? O almeno provarci.
Su un secondo punto politicamente cruciale da Prodi è venuto un segnale, quello della retorica (e degli equivoci) che si condensano intorno all’abusato aggettivo “riformista”.

Significativamente egli ha sostenuto l’esigenza di coniugare radicalità e riformismo. Dove riformismo non sta per moderatismo spinto sino alla subalternità delle posizioni altrui o nella facile, implicita accusa di massimalismo indirizzata a chi semplicemente e giustamente marca l’esigenza di prospettare una vera alternativa culturale e politica. Semmai riformista sta per vocazione e cultura di governo. Ma, ripeto, alternativo alle destre, come si evince dalla sua battuta su Atreju quale espressione di «un altro mondo», di una opposta visione.

Interessante, al riguardo, un cenno retrospettivo – forse anche autocritico circa la “terza via” – al tempo nel quale si sottostimarono i costi della globalizzazione capitalistica e ove il riformismo delle sinistre europee si mostrò subalterno al “pensiero unico”. Non senza implicazioni sull’asse culturale del Pd e, a seguire, sulla sua progressiva deriva quale “partito della nazione” e persino “partito dell’establishment.” A monte, la formula di una malintesa vocazione maggioritaria spinta sino alla presunzione dell’autosufficienza (coltivata da Veltroni ed estremizzata da Renzi). Al riguardo invece Prodi è coerente con sé stesso come il leader “federatore” impegnato a operare sintesi di coalizione. Con autoironia, una volta, egli si autodefinì “scienziato” delle coalizioni.

Infine, non deve sfuggire un suo caveat che evoca il problema endemico del Pd, il suo male strutturale, quello di un patologico correntismo, di un gruppo dirigente concentrato su sé stesso e sul proprio personale destino. Alludo alla sua raccomandazione di fare liste forti, aperte e attrattive per le prossime europee. Non candidature concepite come, cito, «premio di consolazione». Traduco: assecondando la pretesa di “sistemazione” da parte dei cacicchi in scadenza da altri incarichi. Amministratori, sindaci, presidenti di regione. Per inciso: in gran parte assenti all’intervento di Prodi.

Non una sfida minore, anzi, forse la più impervia. Ma anch’essa decisiva. Tra le ragioni dei sei milioni di voti persi negli anni dal Pd puntualmente segnalati da Prodi, non ultima è senz’altro quella di avere trasmesso all’esterno il senso di un gruppo dirigente obeso che – è un eufemismo – non brilla per generosità.

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