L’emergenza prolungata imposta dalla pandemia ha fatto esplodere la “questione regionale”. E’ pane quotidiano la tensione tra stato centrale e Presidenti di regione in un rimpallo surreale di serverità e di licenza. Ma questa schizofrenia mette sotto accusa non l’autonomia bensì la sua attuazione. La critica ai piccoli Bonaparte che l’emergenza ha esaltato non giustifica il ritorno al centralismo.

La critica è al regionalismo disegnato dalla riforma del “Titolo Quinto” della Costituzione (confermata dal referendum nel 2000) che ha cambiato l’ordinamento repubblicano. Ha miscelato per ragioni di compromesso tra i partiti (peraltro fallito) un po’ di federalismo e un po’ di centralismo.

Quella riforma era figlia di due idee, federalismo e sussidiarietà, stimolate anche dal processo unitario europeo. La sussidiarietà prefigurava la devoluzione della sovranità a favore del ruolo della società civile e degli attori privati, mettendo in primo piano la funzione regolatrice delle autorità «più vicine ai cittadini», come recitava la Carta europea dell’autogoverno locale del 1985.

Proprio perché introduce “criteri multipli o plurali di allocazione dell’autorità”, la sussidiarietà è per alcuni l’anima del “vero” federalismo, per altri una contestazione della sovranità dello stato.

Comunque sia, in Italia la lotta tra sinistra e destra prese in quegli anni i colori del regionalismo e della devoluzione rispettivamente. 

Qui si situa la storia della riforma del “Titolo Quinto”, voluta dalla sinistra che vi vedeva l’opportunità di “rifondare le regioni” e, poi, di resistere al vento secessionista della Lega di Umberto Bossi. Il quale di lì a poco avrebbe lanciato il progetto di riforma della riforma del “Titolo Quinto” nel nome, appunto, della devolution, dello smantellamento dell’autorità dello Stato in tutti i servizi vitali per la comunità nazionale, che lasciava posto a una competizione tra comunità etnico-regionali.  Nazionalismi concorrenti tra le Regioni.

Se fosse passata la nuova riforma, quella “nata male” e “sbagliata” del 2000 si sarebbe eternizzata. Quindi coloro che vollero la riforma del “Titolo Quinto”, nel 2006 la difendevano per poterla cambiare! Migliorarla era necessario. Il fatto è che quando si provò di nuovo a riformare la Costituzione, lo si fece non per migliorare il Titolo Quinto ma per incrementare il potere esecutivo, come successe con la proposta Renzi-Boschi bocciata dal referendum del 2016.

In questi mesi tormentati, si sono visti e sofferti i limiti del Titolo Quinto, degli spazi di autonomia definiti con l’introduzione della potestà legislativa concorrente. Si è anche confermato quanto male abbiano fatto i progetti di riforma velleitari.

Quel che occorrerebbe fare è fissare un equilibrio bilanciato tra le responsabilità delle autonomie e il ruolo dello Stato, correggere la sovrapposizioni di poteri e competenze e fermare l’esplosione della legislazione concorrente (con pesanti costi e inefficienza) che “intasano di contestazioni la Corte costituzionale”, come scriveva Pierluigi Bersani nel 2012 in una lettera al Sole 24 Ore, dove diceva: «Le regioni hanno finito spesso per riproporre una centralizzazione a livello periferico, hanno acquisito un ruolo troppo esclusivamente gestionale, hanno in diversi casi smarrito la strada di un corretto ed equilibrato rapporto tra presidenti e Consigli regionali. Un fattore, quest'ultimo, esemplificato da quella definizione orribile di governatore attribuita nel linguaggio comune al presidente della Regione». 

Qui siamo oggi. I costi di una cattiva riforma della Costituzione pesano grandemente e ci inorridisce sapere che le regioni sono disposte a barattare la prevenzione e la solidarietà con l’economia dei loro territori.

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