C'è un anniversario che non è stato celebrato, un compleanno non festeggiato da nessuno. Ignorato da giornali e tv amici, rimosso dai partiti protagonisti. Eppure riguarda la coalizione che governa l'Italia. Trent'anni fa, era il 23 novembre 1993, Silvio Berlusconi stava inaugurando l'Euro-mercato di Casalecchio di Reno, nel bolognese, quando fu raggiunto dalla fatidica domanda, ben suggerita. «Se lei fosse a Roma, chi sceglierebbe tra Francesco Rutelli e Gianfranco Fini?». «Non avrei dubbi», rispose l'allora semplice Cavaliere. «Se fossi a Roma voterei per Fini».

In quel momento Berlusconi aveva 57 anni, era un imprenditore di successo sul punto di intraprendere la sua avventura più rischiosa, scendere in politica, sulle macerie dei partiti che avevano governato l'Italia per decenni, fino a quel momento. Gianfranco Fini aveva 41 anni, era il segretario del Movimento sociale, la sua vita politica sembrava già finita due volte, quando era stato defenestrato dalla segreteria per far posto a Pino Rauti, e quando, appena pochi mesi prima, era stato sconfitto al referendum che cambiava la legge elettorale. Con la fine del sistema proporzionale e l'inizio del sistema maggioritario Fini temeva che il partito per decenni erede del neo-fascismo sarebbe stato cancellato dalla scena politica. Invece, il maggioritario gli stava consegnando un ruolo mai avuto dal 1946. La prima elezione diretta dei sindaci aveva lanciato qualche primo cittadino scelto nelle file del Msi (Silvano Moffa a Colleferro, Pasquale Viespoli a Benevento) e due nomi al ballottaggio nelle città più importanti: Alessandra Mussolini a Napoli (contro l'ex comunista Antonio Bassolino) e lo stesso Fini a Roma (contro il verde Rutelli).

La fine della Prima Repubblica

Con la battuta di Berlusconi lo sdoganamento fu definitivo. Moriva definitivamente la Prima Repubblica, fondata sui partiti di governo di centro. Berlusconi abbatteva il tabù repubblicano, rompeva l'arco costituzionale durato cinquant'anni, il sogno di Giorgio Almirante e di Pino Rauti che da decenni anelavano a entrare in gioco non soltanto come ascari della Dc, portatori di voti sottobanco, ostili alla Costituzione, come racconta lo storico Davide Conti in “Fascisti contro la democrazia” appena pubblicato da Einaudi. Nasceva il centrodestra della Seconda Repubblica. Senza quel sostegno Forza Italia, lanciata da Berlusconi due mesi dopo, sarebbe stata l'equivalente dei partiti popolari, gollisti, liberali, conservatori del resto d'Europa. E il Msi avrebbe fatto la fine di Le Pen (Jean-Marie, il padre di Marine): sarebbe rimasto isolato nel ghetto. Una data storica, dunque, anche per gli avversari. L'inizio del Trentennio.

Invece, nessuno degli eredi protagonisti di oggi ha avvertito la necessità di ricordare quel momento. Né i forzisti né gli ex di An-Msi, i La Russa e i Gasparri che di quell'incontro furono i massimi beneficiari, tra incarichi di governo e nelle istituzioni, nove legislature a testa, come è successo solo ad alcuni inamovibili democristiani, chi lo avrebbe mai detto. Soprattutto ha taciuto la leader della coalizione di oggi, Giorgia Meloni, si sa che la riconoscenza non è il suo forte. Forse è soltanto amnesia, tipica dei tempi. Forse è imbarazzo: nessuno ama rispolverare quell'abbraccio tra Berlusconi e Fini, vista la fine del legame, la rissa fragorosa a favore di telecamere nel 2010, presentata come un combattimento di cani o le comiche finali, invece aveva profonde ragioni politiche. Quel che più interessa, però, è una terza ipotesi: la ricerca tortuosa del centrodestra di una nuova identità.

Meloni tra berlusconismo e destra missina

Giorgia Meloni è l'unica, vera erede di quell'esternazione di Casalecchio, il punto di incontro tra la novità berlusconiana e la vecchia destra missina. Un'eredità che si fonda su un certo pragmatismo, farsi concavi e convessi, secondo l'aurea regola berlusconiana, da esercitare soprattutto in Europa. «Non è più vetero-sovranista, semmai è una neo-rigorosa», ha apprezzato, con una buona dose di ironia, Mario Monti intervenendo all'evento organizzato da “Domani”. La svolta europeista e filo-bruxellese si fa, ma non si dice. Il secondo punto che accomuna Meloni al centrodestra prima maniera è il miraggio presidenzialista, l'elezione diretta del premier, caricata di un significato ideologico che Berlusconi e Fini avrebbero evitato, finire con la Costituzione repubblicana, considerata dalla premier «la base del sistema», una parentesi di 80 anni da chiudere al più presto. Ma così il centrodestra resta senza radici nel passato, quelle remote sono inutilizzabili perché anti-democratiche, quelle più recenti sono taciute perché scontano troppe divisioni. E Giorgia Meloni può muoversi in una tabula rasa senza passato, dove le posizioni precedenti sono state dimenticate o eliminate, senza fare scelte di campo, che costerebbero qualche consenso.

Con Berlusconi ha in comune soprattutto l'idea che i programmi sono interscambiabili, conta la figura del Leader, solo quella riluce agli occhi degli elettori. Perfino la quantità di gaffes, orpelli ministeriali, evidenti inadeguatezze al ruolo, vedi il ministro Lollobrigida (che il santo protettore del giornalismo lo conservi al suo posto!), finiscono per far brillare unicamente Meloni, la Capatrena di questa destra ferroviaria. C'è solo lei in campo, la figlia prediletta del Trentennio di Casalecchio, come non era successo neppure a Berlusconi. Ma chissà se alla lunga sarà un bene.

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