È in corso una svolta delle politiche monetarie internazionali: lo dicono le decisioni delle banche centrali statunitense, europea e inglese di mercoledì e giovedì.

Con velocità diverse, dall’anno prossimo si ridurranno gli acquisti di titoli del “quantitative easing” e cresceranno i tassi di interesse.

Le considerazioni della Bce e le reazioni dei mercati sono state sdrammatizzanti e moderate. Ma dobbiamo prepararci a tempi di liquidità meno sovrabbondante e più cara. Per il gran debito italiano la riflessione dev’essere molto attenta.

L’aritmetica del debito

L’aritmetica del debito pubblico dice che il suo rapporto col Pil scende se il deficit al netto degli interessi sul debito esistente è inferiore a b(g-i), dove b è il rapporto da ridurre, g è la crescita del Pil compresa l’inflazione e i è il tasso di interesse medio pagato sul debito. Per l’Italia b ha superato 150 per cento e la crescita reale, dopo il rimbalzo dalla crisi Covid, è prevista attorno al 2 per cento che, con un’inflazione in linea con l’obiettivo della Bce del 2 per cento, dà g=4. E il tasso di interesse? Difficile dirlo, anche se la situazione attuale è certamente anomala e insostenibile.

Basti pensare che, per collocare il debito emesso a novembre, il governo ha pagato in media niente più dello 0,1 per cento!

Un paese col nostro enorme debito e la nostra instabilità politica riesce dunque a indebitarsi gratis.

La ragione è che gli acquisti della banca centrale eguagliano, quando non superano, le nuove emissioni. E la banca centrale accetta bassi rendimenti.

Per l’aritmetica del debito il valore di i va però stimato guardando al costo medio di tutto il debito in essere. Dal 2015 questo costo è sceso dal 3,5 per cento a meno del 2 ed è previsto all’1,7 nel 2024. Sembrerebbe di poter ragionare nel medio termine con i=2. Dunque b(g-i) = 150 per cento (4-2) = 3 per cento.

Basta tenere i disavanzi primari sotto il 3 per cento del Pil per veder scendere il nostro altissimo b, come ci chiederanno i mercati e come vorrà qualunque nuova versione del Patto di stabilità venga reintrodotta nel 2023.

In effetti, il governo prevede disavanzi primari del 2,7 per cento nel 2022, 1,2 e 0,8 nei successivi due anni. La strada per ridurre il debito non sembra proibitiva.

Se le cose vanno male

Guardiamo però scenari più pessimistici e più a lungo termine. Supponiamo che la svolta delle politiche monetarie faccia crescere i tassi internazionali fin dall’anno prossimo, partendo dagli Stati Uniti, sia perché incorporano più inflazione, sia perché vengono alzati proprio per frenare l’inflazione. E supponiamo che, come sta già succedendo in Usa, la crescita del Pil sia stimabile nel medio-lungo con meno ottimismo di qualche mese fa, vista anche l’ipotesi di politiche monetarie antiinflazionistiche.

Con i=4 (compreso qualche aumento dello “spread” dovuto al rischio-Italia) e g=4 (3 di inflazione e 1 di crescita reale), (g-i) = 0 e dunque il disavanzo primario deve diventare un avanzo.

Con ancor maggior pessimismo sulla crescita, e supponendo che i tassi salgano come previsto in Usa, più un punto di maggior “spread” per il rischio-Italia, i=5 e g=3, b(g-i) = - 2 per cento: per far decrescere b occorre un avanzo primario maggiore del 2 per cento. Solo per invertire di poco il cammino del debito/Pil, servirebbe dunque una “manovra” fiscale restrittiva dell’ordine di 3 o 4 punti di Pil, 50-70 miliardi, anche se distribuiti su più di un anno.

E ciò non basterebbe se il Patto di Stabilità ci obbligasse a far decrescere il debito rapidamente, anche se meno di quanto chiedeva in passato (chiedeva di ridurre il debito/Pil di un ventesimo all’anno della distanza dal 60 per cento, l’obiettivo di Maastricht: una velocità doppia di quella ora prevista dal governo fino al 2024).

Rischio austerità

Da un moderato peggioramento dell’inflazione, dei tassi e della crescita possono venire diversi anni di difficile austerità. In questa prospettiva, due fattori sono cruciali.

Primo: le nuove regole del Patto di stabilità, da decidere l’anno prossimo. Quanta gradualità ci concederanno nel ridurre b? Va detto però che senza per l’Italia sarebbe peggio, perché i tassi sul debito rifletterebbero un rischio-Italia che i mercati riterrebbero più alto senza il coordinamento europeo dei bilanci; tassi che sarebbero inoltre più instabili, con momenti in cui lo spread si impennerebbe sotto attacchi speculativi anche ingiustificati.  

L’altro fattore cruciale è il destino dell’enorme quantità di titoli di Stato che sono oggi nel bilancio del Sistema Europeo di Banche Centrali e che, oltretutto, oggi non costano nulla perché le loro cedole vengono rimborsate al governo nei dividendi della Bce.

Se cresceranno ancor più, se rimarranno dove sono o avranno diverso destino e, ancor prima, come verranno contabilizzati nel debito che il Patto vorrà ridurre.

© Riproduzione riservata