Dal 17 maggio esce per Einaudi il nuovo libro di Stefano Feltri, Il partito degli influencer – Perché il potere dei social network è una sfida alla democrazia (Einaudi). Ne pubblichiamo qui un estratto.


L’ascesa degli influencer come nuova forma di intrattenimento di massa segna una grande rivoluzione che, come tutti i cambiamenti epocali, offre enormi opportunità e altrettanto grandi rischi. Che si tratti di produrre notizie, o piú spesso di intrattenere, chiunque è un «content creator» che cerca di accumulare la piú preziosa forma di capitale nel mondo (digitale e analogico) contemporaneo: la reputazione, che si può misurare in termini di follower, reazioni, condivisioni e molto altro.

Negli anni del populismo abbiamo visto i rischi della disintermediazione: indebolire tutti i soggetti incaricati di processare l’informazione e presidiare processi decisionali – dai media, ai partiti, agli esperti – ha generato un’illusione di orizzontalità che ha portato a esiti deludenti. Ma se è indubbiamente pericoloso affidare la politica monetaria o le strategie militari a dilettanti capitati per sbaglio al vertice delle istituzioni, che
male c’è nel permettere a chiunque di postare video divertenti e incassare qualche soldo mettendo in bella mostra borse, scarpe, o creme rassodanti?

Un primo rischio è la frammentazione dello spazio pubblico. Il mondo dei media tradizionali aveva molte controindicazioni: per stare all’Italia, tre gruppi editoriali decidevano cosa gli italiani potevano vedere in video, e una manciata di grandi imprenditori spesso sussidiati dalla politica controllava i giornali
e la loro linea editoriale. 

Il vantaggio di un’offerta cosí limitata, però, era di creare una base condivisa di cittadinanza: tutti formavano le loro opinioni, scelte di consumo e di preferenza politica piú o meno sulla base degli stessi elementi.
Il web prima e i social poi hanno introdotto enormi spazi di libertà ma hanno anche cancellato ogni minimo comune denominatore.

La fine dello spazio pubblico

Vivere la propria vita pubblica digitale  in una bolla completamente personalizzata ha un suo fascino, ma anche effetti collaterali che già abbiamo misurato in questi anni: significa non essere mai esposti a idee diverse da quelle che risultano piú confortevoli, accedere sempre allo stesso tipo di contenuti e ai medesimi linguaggi.

Questa nuova struttura dello spazio pubblico si presta a manipolazioni impossibili nell’età della televisione, della radio o perfino dei siti Internet e dei blog. Con investimenti limitati e sufficiente capacità persuasiva, si può usare una rete di influencer per parlare a segmenti ben caratterizzati di pubblico, spesso i piú fragili e meno strutturati a resistere alle tecniche di persuasione, per condizionarne le preferenze in termini di consumo, politiche pubblicate o candidati alle elezioni.

Molti governi lo hanno fatto con una certa disinvoltura per promuovere i vaccini anti-Covid, ma una volta superata la linea rossa della manipolazione (sempre per una buona causa, dicono tutti) non è chiaro dove ci si ferma.

L’opacità dei rapporti

Tutta la scarsa regolazione esistente si è concentrata sull’aumentare la trasparenza del singolo post: si chiede cioè agli influencer di segnalare se uno specifico contenuto – come un post, una storia o un video – è stato concordato con un inserzionista.

Nel caso ci sia stato un contratto o comunque un accordo che prevede contropartite, allora l’influencer deve esplicitare che non si tratta di un contenuto spontaneo, ma pubblicitario (di solito con una sigla, tipo «adv» per advertising). 

Questo approccio è completamente inadeguato: all’azienda è sufficiente costruire un rapporto con l’influencer che vada oltre il singolo post per aggirare la regolazione.

Se un giornalista accetta una consulenza di comunicazione da un’azienda petrolifera per, diciamo, 50 000 euro all’anno, poco importa se poi gli articoli a tema ambientale che pubblica su Facebook o su un blog o anche sui quotidiani non sono frutto di un accordo specifico con quella o altre aziende: giustamente
non verranno presi sul serio, perché tutti i lettori informati della consulenza penseranno che quel giornalista non è intellettualmente libero (o onesto) quando tratta argomenti che riguardano un tema caro a chi gli paga una cifra considerevole.

Questo sano e basilare scetticismo non si applica ai social: perfino piattaforme pubblicitarie viventi come i Ferragnez vengono percepite dai loro follower come persone normali molto popolari, invece che come imprenditori dell’intrattenimento che – letteralmente – mettono all’asta la loro influenza.

La richiesta di trasparenza dovrebbe quindi essere molto piú radicale e riguardare tutti i rapporti commerciali degli influencer, non soltanto quelli relativi ai singoli post.

Per stare all’esempio di Fedez, non perché sia peggio degli altri ma soltanto perché su di lui ci sono piú informazioni disponibili: i suoi contratti con Amazon, Coca-Cola e grandi banche possono influenzare la sua intera produzione contenutistica, non soltanto i post o i podcast in cui parla esplicitamente dei settori di attività in cui operano quelle aziende.

Fedez e i suoi colleghi hanno tutto il diritto di condurre i loro affari come meglio credono, fino a quando la legge e le autorità di regolazione glielo consentiranno, ma i loro follower avrebbero diritto di sapere con quali aziende collaborano e quali impegni hanno preso.

Non è realistico pensare che ci sia una trasparenza totale, ma qualcosa in piú della completa opacità di oggi è lecito pretenderlo. Una soluzione di compromesso potrebbe essere prevedere per legge che tutti gli influencer sopra i 100 000 follower siano tenuti a dichiarare la lista dei marchi con i quali hanno collaborato
negli ultimi cinque anni e in cambio di quali prestazioni.

Impossibile pretendere che rivelino anche le somme pattuite, ma già la lista sarebbe un primo passo.
Questi meccanismi di trasparenza hanno soprattutto l’effetto di far emergere situazioni anomale: in un attimo potremmo distinguere i contenuti davvero spontanei da quelli che sono sospetti di essere pubblicità mascherata.

Se un influencer si riprende tutte le mattine mentre mangia Pan di Stelle ma non dichiara alcuna collaborazione attuale o passata con Barilla, allora potremo dedurne che è sinceramente un amante dei biscotti al cioccolato.

Se invece, dopo tutti quei video ad alto contenuto calorico, inizia una collaborazione con l’azienda, allora ci costringerà a rileggere tutti i contenuti postati in precedenza come tentativi di farsi notare dal marchio da cui voleva essere remunerato. 

La caduta dell’interesse

Se molti utenti vengono pagati per fare ciò che altri invece fanno spontaneamente, tutto si inceppa: a nessuno piace la sensazione di lavorare gratis, e neppure di essere preso in giro da chi considerava un proprio omologo.

Nel caso in cui alcuni dei nostri amici su Facebook o Instagram iniziassero a postare recensioni a pagamento di libri, ristoranti o vestiti, perderemmo rapidamente interesse per le loro raccomandazioni, giudicandole poco sincere e dunque prive di valore.

Un valore che invece hanno se sono contenuti spontanei e gratuiti, perché si qualificano come consigli sinceri e non come pubblicità.

Poiché i social media e il potere degli influencer si fondano sulla reputazione, dipendono in ultima analisi dalle preferenze individuali: siamo noi, insomma, a stabilire chi può avere influenza sulle nostre opinioni e consumi.

Se la domanda di trasparenza e correttezza aumenterà, aziende, influencer e regolatori non potranno fare a meno di adeguarsi. Dipendono da noi, un influencer senza follower perde influenza. Nella storia chi si è lamentato dei cambiamenti tecnologici e ha invocato ritorni a un passato idealizzato è sempre stato prima sconfitto e poi deriso.

Ha molto piú senso chiederci cosa possiamo fare per rendere questa nascente sfera pubblica piú onesta e democratica, invece che dolerci per la sua esistenza. Il fenomeno degli influencer indica una trasformazione epocale delle nostre società, meglio governarla che subirla.

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