In un articolo scritto su queste pagine, Nadia Urbinati si scaglia contro i progetti di autonomia differenziata di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna perché: il preteso regionalismo rafforzato sarebbe ispirato da logiche secessionistiche e, per questo, creerebbe rischi di allargamento del divario nord-sud; non terrebbe conto del fatto che il benessere delle regioni del nord sarebbe stato raggiunto anche grazie alla «persistente indigenza» delle regioni del sud; costituirebbe manifestazione di un nazionalismo intriso di neoliberismo, che finirà, se non si corre ai ripari, per aprire la strada a forme di populismo xenofobo, non potendo null’altro derivare da quello che si configura come un egoistico tentativo di difendere il proprio tenore di vita.

Di qui le conclusioni: occorre avviare una discussione, «se non altro per deliberare con competenza e ragionevolezza».

Cogliamo quindi volentieri l’invito alla discussione, per rimarcare innanzitutto che non è rinvenibile nel contributo di Urbinati alcun riferimento ad alcune questioni fondamentali.

I progetti di autonomia differenziata costituiscono il tentativo di dare attuazione all’articolo 116, comma 3, della Costituzione, il quale consente alle regioni, che si muovono nel pieno rispetto della Costituzione (altro che populismo!), di avviare un confronto bilaterale con lo stato in modo da ottenere «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia».

Il sistema dei trasferimenti interterritoriali ha da decenni generato una situazione nella quale, malgrado gli ingenti avanzi delle regioni settentrionali e gli altrettanto cospicui disavanzi delle regioni meridionali, il nord cresce pochissimo e il sud va anche peggio. Siamo di fronte, nell’attuale contesto istituzionale, a un chiaro problema di sostenibilità della finanza pubblica.

È evidente che il gap potrà diminuire, con benefici effetti su tutti i cittadini ovunque residenti, solo se il paese cresce, circostanza questa che non può verificarsi in una situazione di endemico e sempre più accentuato squilibrio. Siamo di fronte dunque all’ennesimo tentativo di demonizzare la proposta di riforma utilizzando alla rinfusa termini evocativi di fenomeni peraltro molto differenti tra loro (secessionismo, neoliberismo, populismo, xenofobia).

Per quale ragione l’autonomia sarebbe il terreno di coltura ideale per l’affermazione del populismo xenofobo? Come può sfuggire che la fascinazione per il populismo di destra è già evidente nell’Italia di oggi, che non è senz’altro paese le cui istituzioni si ispirano a modelli federalistici? E se, invece, fosse proprio la responsabilizzazione che si connette alla differenziazione un’arma per depotenziare l’appeal del populismo?

Perché non considerare, in questa prospettiva, che l’autonomia differenziata può garantire un più efficiente governo dei territori che hanno dato nel corso del tempo dimostrazione di essere in grado di amministrare in modo sufficientemente positivo la cosa pubblica? Infine, perché ritenere, che l’arricchimento degli individui e dei territori si connetta necessariamente allo sfruttamento di altri individui e di altri territori, in un gioco a somma zero?

Non può ammettersi infine che i tentativi delle tre regioni del nord vengano liquidati, come fa Urbinati, come “leghisti” (lo si dice per amor di verità, senza voler attribuire al termine nessun connotato, né negativo, né positivo). E ciò non solo per il fatto che al tavolo dell’autonomia differenziata siede anche l’Emilia-Romagna, ma anche e soprattutto perché non corrisponde al vero che ci «troveremmo di fronte al coronamento del piano della Lega di Bossi»: ed invero, se si allarga la prospettiva ad altri paesi europei non si può che prendere atto che le richieste di autogoverno territoriale giungono sia da destra che da sinistra e possono essere moderate o radicali.

La ragione è presto detta: le tensioni tra lo stato e gli altri enti territoriali sono state elemento cruciale del processo di formazione degli stati moderni e continuano a caratterizzare il confronto politico. Bossi ha certamente introdotto una novità quando ha portato alla ribalta gli interessi del nord, ma ciò non significa che abbia “inventato” la tensione tra centro e periferia, tra Roma e i territori.

È giusto quindi dibattere e riflettere su riforme istituzionali di tale portata, ma non si dovrebbe lasciarsi andare a critiche (in realtà vere e proprie accuse) che prescindono del tutto dai contenuti dei progetti di differenziazione e dal contesto economico-istituzionale in cui essi sono maturati.

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