Fratelli d’Italia, Lega e Cinque stelle hanno bocciato il nuovo Mes “salva banche” perché i nostri istituti di credito sarebbero i più solidi del mondo, e quindi i fondi per il loro salvataggio sono inutili.

A chi ha votato no in parlamento rammento che le nostre banche detengono 665 miliardi di debito pubblico, a fronte di un patrimonio netto complessivo di 358 miliardi.

Quindi, in caso di crisi del nostro debito, il suo valore crollerebbe e trascinerebbe con sé le banche italiane: qualcuna rischierebbe l’insolvenza, senza contare il possibile panico, corsa agli sportelli eccetera, come si è già visto in altri casi.

Senza il Mes chi ricapitalizzerebbe le banche in crisi? Chissà se chi ha bocciato la ratifica, per guadagnare (forse) qualche voto in più alle elezioni europee, ci ha pensato. A meno che i partiti del fronte no Mes non ritengano impossibile una crisi del debito. Purtroppo, non è così.

I vincoli del Patto

L’aspetto meno credibile del nuovo Patto di stabilità è infatti la pretesa che i paesi siano in grado di rispettare vincoli così rigidi, differenziati e prolungati nel tempo. Anche in assenza di shock imprevisti, è impossibile prevedere la crescita potenziale futura e quindi la possibilità che i singoli paesi siano in grado di sostenere economicamente, socialmente e politicamente il peso dei vincoli previsti dal Patto.

Da qui il giudizio che viene condiviso dalla totalità degli investitori internazionali: il nuovo Patto non riduce il «rischio frammentazione», cioè di una crisi del debito pubblico dei paesi più indebitati, come l’Italia.

Traduzione: o l’Italia adotta una politica fiscale sostenibile con un avanzo primario prolungato o rischia che non ci siano compratori a sufficienza per i suoi titoli di stato. La sostenibilità del debito non è un vincolo imposto da Bruxelles, ma dall’assoluta necessità di evitare la fuga degli investitori che finanziano il nostro disavanzo pubblico. Un problema molto più pressante di quanto pensi il nostro governo.

La reazione dei mercati

Gli investitori stranieri detengono 763 dei 2.844 miliardi di debito pubblico. Adesso sono focalizzati su Wall Street, taglio dei tassi, deflazione cinese, fine dei tassi negativi in Giappone, crisi mediorientale e impatto sul costo del greggio, costo dei rischi geopolitici e della transizione ambientale.

Ma se arrivasse una recessione in Europa – evento la cui probabilità sta aumentando – il problema della sostenibilità del debito pubblico dell’Italia, fanalino di coda per crescita e produttività, tornerebbe in primo piano, e spingerebbe gli investitori verso lidi più sicuri.

Seguiti a ruota dagli istituzionali italiani (345 miliardi) perché loro dovere è salvaguardare il risparmio dei clienti, non dare l’oro alla patria; e dalle nostre banche (665 miliardi), che devono tutelare gli interessi degli azionisti, in prevalenza stranieri. Invece di vendere, potrebbero coprirsi dal rischio, ma a livello aggregato non cambia nulla perché i derivati di copertura non riducono il rischio, ma lo trasferiscono soltanto da un’entità all’altra.

Il ruolo della Bce

Se ci sono solo venditori, chi sottoscrive il nuovo debito pubblico e rifinanzia quello in scadenza? E cosa succede se le aste del Tesoro non vengono interamente sottoscritte? La Bce può intervenire con le risorse del Pepp ma solo, e in forma ridotta, fino a fine 2024.

In caso di crisi, il governo potrebbe sempre richiedere alla Bce di intervenire con il programma Omt che però impone un piano di salvataggio con condizionalità da parte del vecchio Mes che, finalmente, la presidenza del Consiglio ricorda essere «in piena funzione nella sua configurazione originaria, ossia di sostegno agli Stati membri in difficoltà finanziaria». Altro che «non l’utilizzeremo mai».

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