Per il clan Agnelli l’Italia è da sempre un parente povero; se ne vergogna, non trovandolo alla sua altezza.

Non fa eccezione John Elkann, oggi amministratore delegato della capogruppo Exor e presidente del gruppo di auto Stellantis, cui nel 2020 Exor ha venduto Fiat-Fca. Al Festival Internazionale dell’Economia (di Torino, l’originale), ha detto: «Gli stati entrano nelle imprese quando vanno male e Stellantis va molto bene...nella nostra storia che nasce come Fiat tre secoli fa che poi è evoluta con Fca e oggi è Stellantis, non abbiamo mai avuto nessun bisogno di avere lo stato nel nostro capitale».

Tali parole, citate dal Sole 24 Ore il 2 giugno, non avrebbero sorpreso, nella loro fintamente candida spudoratezza, il defunto salvatore della Fiat, il ruvido Sergio Marchionne.

Elkann s’è dimostrato abile finanziere e non è tenuto a conoscere la storia patria, ma quella del suo gruppo sì. Che Fiat sia nata “tre secoli fa” è lo svarione, ridicolo e irrilevante, d’un affannato copywriter; che però non abbia mai dovuto far entrare lo stato in azienda è una mezza verità legale e, se non una reale balla, una sicura burla.

Nella sua storia Fiat ha avuto più volte bisogno d’una partecipazione statale ma, potendo scegliere, ha preferito incassare in modi meno vincolanti. Elkann cura, bene, l’interesse di Exor, ma esiste anche quello dell’Italia, da cui Fiat ha ricevuto nel tempo mille aiuti; non può tartufesco, fingere d’ignorarli. Dal tradizionale freno al trasporto su ferro, ad Alfa Romeo, che Fiat comprò dallo Stato non per svilupparla, ma per ridurla in soggezione, levare di mezzo un concorrente e tener fuori Ford dalla riserva di caccia italiana, agli eco-incentivi ecc. Per Massimo Mucchetti (Corriere, 6 febbraio 2010) «...la storia della Fiat gronda di aiuti pubblici, com’è stato ampiamente documentato anche dall’indagine parlamentare del 2002».

Vera quindi è l’affermazione di Elkann per il Codice, falsa invece per le finanze pubbliche, donde nell’ultimo mezzo secolo sono sgorgati 200 miliardi di euro. Del tutto errata è infine la prima affermazione; gli stati non entrano nelle imprese solo perché vanno male, mossa sbagliata e frequentissima, ma anche per altre ragioni, legate all’idea – per molti sfuggente come un noùmeno – dell’interesse dello stato.

Per difenderlo sarebbe desiderabile che Cdp, o altra entità pubblica nostra, assumesse una partecipazione in Stellantis, analoga al 6 per cento lì detenuta dalla Francia tramite Bpi France.

Così si tutelerebbe la presenza industriale del gruppo in Italia, al contempo facendo un buon affare; Stellantis è ben gestita dall’amministratore delegato, Carlos Tavares. Non si deve chiedere il permesso a nessuno; al massimo una telefonata a Parigi prima di comprare le azioni, o anche dopo.

 

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