Il Pd è in surplace. Rimane in equilibrio controllando le spinte delle correnti interne e le sfide della politica nazionale. Sul piano interno vige un precario armistizio. Basta un nonnulla e si riaccende lo scontro. Lo testimonia la tempesta che scatenatasi da Bologna, dopo l’esclusione dalle liste elettorali di quei dirigenti che avevano sostenuto la cordata della (ex?) renziana Isabella Conti alle primarie, in contrapposizione al candidato ufficiale del partito.

La decisione appare ovvia: perché mai costoro vogliono contribuire a una lista che hanno cercato di affossare e non si candidano in quella, peraltro ora alleata, che hanno caldamente appoggiato alle primarie?

L’episodio, che ha avuto eco nazionale e ha mobilitato i leader della corrente (cosiddetta) riformista, ha messo in luce quanto sia tuttora profonda, forse incolmabile, la distanza che separa gli inossidabili sostenitori di Matteo Renzi dall’attuale segreteria.

Oppositori in attesa

Per ora, comunque, l’opposizione interna rimane in attesa di un vero passo falso dell’attuale leadership per attaccare a fondo. Le elezioni amministrative potrebbero fornire la prima occasione per ravvivare il conflitto, ma le previsioni emerse dai sondaggi sono particolarmente favorevoli per Enrico Letta, che potrebbe uscirne ancora più rafforzato se a Bologna il suo candidato vincesse agevolmente al primo turno, e a Napoli venisse eletto al ballottaggio l’ex ministro Gaetano Manfredi.

Dato che solo in queste due città è stata siglata un’alleanza elettorale tra Pd e Cinque stelle, un tale risultato rafforzerebbe la linea strategica di uno stretto rapporto con i pentastellati di rito contiano, marginalizzando ogni ipotesi proto-centrista, con conseguente ridimensionamento dei filo-renziani.

Oltre il voto

Tuttavia, una maggiore tranquillità interna non basta a risolvere i problemi del Partito democratico. Manca ancora un’agenda ben definita e mobilitante. Al netto delle proposte che verranno dalle Agorà appena lanciate – un interessante tentativo di riaccendere l’interesse a discutere all’interno del partito – la leadership non ha ancora chiarito se intende premere l’acceleratore verso un radicale riformismo sul piano valoriale e socio-economico o preferisce galleggiare su un filo-governismo d’antan, riprendendo il mantra del Pd partito responsabile.

Se sui diritti civili si intravedono segnali positivi, a eccezione di una certa freddezza sulla depenalizzazione della cannabis, sul piano economico-sociale, invece, la nebbia non si è ancora diradata. Prendiamo il caso della riforma fiscale.

La prudenza del ministro dell’Economia Daniele Franco, in linea con la sua attitudine da tecnico, mal si concilia con la necessità di agire con la leva fiscale per riequilibrare la distribuzione della ricchezza. O si ritiene che solo il mercato possa determinare fortune e sfortune degli individui e dei gruppi, o si pensa che una sua regolazione sia necessaria – ed efficace – per ridurre le disuguaglianze. Forse sarebbe salutare ritornare all’abc della politica moderna, alle motivazioni originarie dello scontro storico tra destra e sinistra, tra conservazione e progresso.

Da sempre i conservatori hanno giustificato il mondo sulla base della tradizione e dell’ordine naturale delle cose. I progressisti, dal canto loro, hanno sempre valorizzato l’intervento della volontà individuale e collettiva per modificare gli assetti dati.

Così come la naturalità del ruolo plurimillenario della donna – far figli, accudire la casa e soddisfare i maschi – alla fine del Novecento è stata rovesciata da una visione totalmente diversa, quella ugualitaria, altrettanto la naturalità delle gigantesche differenze socio-economiche, già attaccata dalle lotte sociali del secolo scorso, va, ora e di nuovo, contestata alla radice.

Pd post liberista

Il paradigma neoliberista del successo individuale con conseguente idolatria del mercato è penetrato anche tra le fila della sinistra facendole perdere l’anima, il senso di sé, e, alla fine, inevitabilmente, i suoi elettori.

Se il Pd non si disintossica da questo veleno che inquina le ragioni stesse dell’essere progressista rischia un’ulteriore sudditanza a princìpi non suoi, magari ammantati da un’aura tecnocratica.

Tassare i ricchi è semplicemente quello che una società normalmente equa deve fare; così come sostenere i poveri con interventi come il reddito di cittadinanza.

Il Pd non può rimanere in surplace su questi temi. Sa bene su cosa puntare per uscire dalle Ztl e riprendersi i voti dei ceti sottoprivilegiati che sono scappati altrove, anche a destra per pura rabbia e senso di tradimento.

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