In quello che Time ha definito l’anno «peggiore di sempre», almeno nella vita della maggior parte di noi, in Italia si torna a parlare di code per il pane.

Non perché il pane non ci sia, o non ci sia per tutti, ma perché tanti «nuovi poveri» sono costretti a rivolgersi ai presidi di solidarietà per assicurarsi la sopravvivenza quotidiana.

Così, complice la rituale copertura natalizia delle iniziative del volontariato laico e religioso, il 2020 si va a chiudere non solo con le immagini trionfali dei primi vaccini, ma anche con il racconto di brutale urgenza delle esistenze spinte al limite, sull’orlo del precipizio.

Tra le lezioni della pandemia dovremo annoverare anche l’illusorietà delle divisioni e contrapposizioni care alla retorica nazional-populista, come quelle tra italiani e stranieri, o tra chi lavora e chi vive di assistenza. Con buona pace di Matteo Salvini e del suo tentativo di trasformare il disagio estremo in una photo opportunity di Natale.

L’interruzione improvvisa delle attività, in particolare nel settore dei servizi, ha infatti colpito il lavoro e il reddito senza guardare al passaporto. E la fragilità delle protezioni sociali ha avvicinato alla soglia di povertà lavoratrici e lavoratori autonomi, precari, in nero.

Oltre l’eccezionalità della minaccia virale, si intravvede dunque l’ordinaria realtà dei bisogni primari insoddisfatti.

Al di sotto delle trasformazioni avveniristiche degli stili di vita indotte dall’accelerazione tecnologica – lo smart working, l’e-commerce, le piattaforme di condivisione e intrattenimento – resta la dura materialità dei corpi.

La dimensione e la gravità del fenomeno delle nuove e vecchie povertà potrebbe infine aprire gli occhi a quelle élite politiche ed economiche che Nadia Urbinati, nel suo libro Pochi contro molti, descrive come cieche dinnanzi all’urgenza di sopravvivere delle persone.

Il «divorzio» dei «pochi» dai «molti», è la tesi dell’autrice, ha creato una divisione tanto profonda da rendere i politici e gli intellettuali sempre più incapaci di vedere i bisogni e le condizioni sociali effettive del «popolo». Il popolo, anche quando trasformato in feticcio, è rimasto insomma un referente vuoto. 

Un riflesso di questa scollatura si è avuto negli anni passati proprio nei dibattiti che hanno accompagnato il disegno e il varo di politiche per il contrasto alla povertà.

Anche dalle parti della sinistra si è diffusa una visione depoliticizzata della povertà, che ne fa un problema individuale e un demerito personale, a cui si può rispondere spingendo i bisognosi verso comportamenti virtuosi.

Le cause strutturali del fenomeno – crescita delle diseguaglianze, peggioramento delle condizioni occupazionali, restrizioni del welfare, assenza di servizi, discriminazioni istituzionali – sono state rimosse in tutto o in parte dal quadro.

Le politiche contro la povertà sono state promosse e sostenute come misure per l’inserimento occupazionale, spesso accompagnate dalla retorica «anti divano».

Poco spazio ha trovato il racconto del lavoro precario e sottopagato, dei salari troppo bassi per consentire una vita dignitosa, insomma dell’universo dei working poor.

Da qui, dalla resistenza di una forma mentis per cui anti povertà fa rima con passività, deriva l’avversione verso gli strumenti di sostegno al reddito che si respira anche in questo tempo di estrema emergenza sociale.

La gravità della crisi che si sta spalancando davanti ai nostri occhi dovrebbe invece essere l’occasione per ripoliticizzare la povertà, contro le narrazioni che ne fanno un destino privato o un fatto di natura, per affrontarla come un problema di eguaglianza e di giustizia. 

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