«Sono umana, i politici sono esseri umani. Diamo tutto quello che possiamo per tutto il tempo che possiamo. Poi arriva il momento. E per me il momento è arrivato».

Così la prima ministra Jacinda Ardern ha annunciato le sue dimissioni, con mesi di anticipo rispetto alle elezioni generali in Nuova Zelanda.

È forse il primo caso al mondo di un capo del governo che rinuncia al suo incarico con motivazioni che sembrano avere a che fare con il senso dei propri limiti, con il rapporto tra vita personale e vita pubblica, e forse con la difficoltà di continuare a riempire di significato un impegno che esige un eccezionale sacrificio di sé e di altre dimensioni e relazioni significative.

Insomma, è quello che in altri settori si chiamerebbe un caso di burnout. E che infatti ha già evocato nella discussione pubblica il tema più ampio delle “grandi dimissioni”, della rinuncia a posizioni lavorative che mettono a repentaglio il benessere individuale, o non soddisfano le domande di senso che soprattutto le persone giovani rivolgono alla vita professionale.

Ma non si può mettere tra parentesi il tipo di lavoro di cui parliamo in questo caso, cioè il mestiere della politica.

Né dimenticare che a compiere questo gesto inusuale è una donna, che quando è stata eletta, nel 2017, era la più giovane donna a capo di un governo nel mondo.

È stata anche una delle pochissime ad aver portato avanti una gravidanza nel tempo in cui ha rivestito questo incarico.

Il messaggio che lancia la premier neozelandese è dunque politico, forse suo malgrado.

Ha a che vedere con il rapporto tra le donne e il potere, più ancora tra le donne di potere e i modelli a cui sono chiamate a conformarsi.

Modelli che sono in evidente conflitto con la preoccupazione per la cura di sé e del complesso delle relazioni a cui si intende dare valore.

È difficile resistere alla tentazione di vedere all’opera, nel caso di Jacinda Ardern, l’effetto espulsivo che i sistemi politici esercitano verso le donne.

La storia breve, accidentata e mai compiuta di inclusione della componente femminile nella cittadinanza ha lasciato fino ad oggi largamente intatta la forma delle istituzioni e la grammatica del potere, entrambe modellate al maschile.

Molte donne ricoprono oggi alte cariche e spesso, come Giorgia Meloni, si fanno un vanto della propria capacità di competere e resistere.

Ma qualcuna, di quando in quando, arriva di fronte a un muro, si ferma prima di andare a sbattere e dice con onestà – come fece Anne-Marie Slaughter dimettendosi dal Dipartimento di Stato degli Stati Uniti – «le donne non possono ancora avere tutto».

Quei «millenni di assenza dalla storia» che secondo Carla Lonzi segnano in profondità la «differenza della donna» tornano talvolta a manifestarsi come una potenzialità di scarto, di non allineamento rispetto a norme, tempi, luoghi concepiti senza di lei.

Forse, per questo, solo una donna, più ancora una giovane donna, poteva oggi aprire questa faglia, con il suo gesto irrituale.

E poteva farlo, forse, solo in questo tempo. Un tempo in cui, anche per l’effetto di sovversione delle priorità che la pandemia ha portato con sé, l’attenzione alla dimensione del benessere e della qualità della vita ha acquisito un nuovo peso per tutte e tutti.   

Può essere allora prezioso il messaggio di Jacinda Ardern, se si comprende come la sua storia individuale sta dentro i processi collettivi, e se diventa uno stimolo per una rinnovata riflessione sul rapporto tra donne, generazioni, modelli di successo e di potere.   

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