Le occupazioni? Servono. Dialogare con gli studenti per arginare lo squadrismo

Negli ultimi mesi si sono moltiplicate le occupazioni delle scuole superiori in molte città italiane. Non è una novità: ogni autunno si ripresentano come un rito di passaggio generalmente tollerato. Quest’anno, però, il clima è cambiato, e in diversi casi si sono registrati episodi di violenza. Martedì, al liceo Righi di Roma, si è verificata una nuova aggressione squadrista contro gli studenti che occupavano la scuola. Una ventina di ragazzi dell’ultradestra giovanile – armati di bastoni e con adesivi di Gioventù nazionale – hanno tentato di forzare i cancelli intonando cori fascisti. Non è il primo evento del genere. Episodi simili si sono registrati al liceo Leonardo da Vinci di Genova e anche in altre città. La primavera delle occupazioni scolastiche, al Minghetti di Bologna partono le denunce A Torino, davanti al liceo Einstein, la tensione è esplosa quando alcuni militanti di Gioventù nazionale hanno distribuito volantini “contro la cultura maranza”. Il confronto è degenerato: la polizia è intervenuta contro gli studenti di sinistra, e un quindicenne è stato ammanettato, scatenando polemiche e indignazione per il comportamento, giudicato eccessivo e di parte, delle forze dell’ordine. Il moltiplicarsi di questi episodi preoccupa perché segnala il rischio di una nuova stagione di violenza politica. I leader nazionali farebbero perciò bene a misurare le parole, evitando di alimentare un clima di polarizzazione e delegittimazione reciproca che rischia di riflettersi sui più giovani. Al di là della polemica politica, vale la pena interrogarsi sulle risposte delle istituzioni, scolastiche e di ordine pubblico. In alcuni casi la reazione delle forze dell’ordine è apparsa eccessiva e la scuola assente, con insegnanti che hanno persino attribuito parte della responsabilità dei raid alle occupazioni. In altri la risposta è stata più equilibrata e gli istituti hanno scelto l’ascolto e il dialogo. A Firenze, durante il tentativo di irruzione di un gruppo di esterni, gli studenti occupanti dell’Istituto tecnico Marco Polo hanno difeso la natura pacifica della protesta. Dopo ore di tensione gli aggressori si sono ritirati. La notte successiva studenti universitari, docenti e personale scolastico — insieme al preside e ad alcuni genitori — hanno organizzato un presidio solidale davanti alla scuola. Un’immagine di comunità che, senza legittimare l’occupazione, si è stretta intorno ai ragazzi in difesa della democrazia e contro la violenza. Valditara criminalizza le occupazioni: «Ecco i danni». Gli studenti lo smentiscono Episodi come questo mostrano la funzione educativa che le occupazioni — e ancor più la risposta delle istituzioni — possono assumere. Gli anni dell’adolescenza sono cruciali per la socializzazione civica: è in questa fase che si forma la convinzione che la partecipazione possa contribuire al cambiamento. In questo processo, i giovani non sono semplici destinatari di influenze familiari o scolastiche, ma attori consapevoli, protagonisti del proprio sviluppo politico. Tuttavia, gli adulti e le istituzioni esercitano un ruolo importante: non tanto di “plasmare” le opinioni, quanto di creare o limitare le condizioni che permettono di sperimentare la partecipazione democratica. La scuola è uno degli spazi in cui questo processo avviene più chiaramente. Le occupazioni, lungi dall’essere semplici atti di devianza, rappresentano una delle manifestazioni di quella “moratoria psicosociale” che — come ricordava Erik Erikson — consente agli adolescenti di esplorare ruoli e regole, anche trasgredendole, e di misurarsi con l’autorità. Quando la scuola e le istituzioni reagiscono con ascolto, trasformano la protesta in un’occasione di apprendimento civico. Se reagiscono con equilibrio, senza legittimare gli eccessi e senza tollerare la violenza, da qualunque parte provenga, gli studenti imparano che la partecipazione — anche quando prende forme improprie — può generare dialogo e cambiamento, e che la democrazia non è un principio astratto, ma un “gioco” che si apprende praticandolo. Al contrario, quando la protesta sfocia nella violenza o viene repressa, affidandola solo all’intervento dell’ordine pubblico, il messaggio che arriva ai giovani è opposto: la partecipazione è pericolosa, la politica un terreno ostile, la voce dei cittadini non conta. Così si alimentano sfiducia e disimpegno, proprio in una fase in cui si formano gli orientamenti civici e politici di lungo periodo. La scuola può essere molto più di un luogo di istruzione: una palestra di civismo e sperimentazione democratica. Come ricordava John Dewey, la democrazia non si insegna con le lezioni, ma si impara esercitandola ogni giorno nelle relazioni tra persone e istituzioni. Occupazioni scolastiche figlie del dialogo impossibile: la promessa tradita degli organi collegiali