Mario Draghi, nella sua audizione al parlamento italiano, ha preso a schiaffoni il progetto ReArm di Ursula von der Leyen. Le sue parole sono state tranchant, ultimative. Il finanziamento ai singoli stati nazionali per potenziare il loro potenziale bellico non serve a nulla perché non fa crescere l’economia europea; anzi, crea l’illusione che tanti soldatini dispersi possano essere un deterrente rispetto ai potenziali nemici. Invece, ha sostenuto l’ex presidente del Consiglio, è necessario creare una massa critica industriale attraverso investimenti e ricerca sul continente al fine di autonomizzarsi da alleati problematici.

La conclusione politica del suo intervento è stata tagliente come un rasoio sulla maschera sovranista del governo: per procedere sulla strada della sicurezza europea va accelerato il processo di unificazione. Solo un potere sovranazionale federale, non intergovernativo come è ora, può avanzare in questa direzione, e assicurare il controllo politico e democratico dei cittadini su scelte così vitali.

Il contrario di quanto ha fatto la presidente della Commissione con il suo passaggio al parlamento europeo. Una graziosa concessione per far discutere (e litigare nel caso degli italiani di maggioranza e di opposizione) gli eurodeputati, senza che il loro voto contasse nulla, in quanto del tutto irrilevante giuridicamente. Ma su questo voto puramente consultivo si sono costruiti grandiosi castelli di carta.

Per rimanere invece ai fatti, Mario Draghi ha puntualizzato le contraddizioni dell’iniziativa della Commissione e dei suoi zelanti sostenitori. Eppure è stato osannato anche da coloro che non condividono nulla della sua posizione e si muovono in direzione contraria, a iniziare dal ministro dell’economia Giorgetti, elegante come un avventore di osteria quando ha parlato del progetto di riarmo tedesco e connessa eliminazione del freno sul debito.

Giorgia Meloni si regge in equilibrio tra le due sponde dell’Atlantico spandendo banalità a 360 gradi. Con qualche punto fermo, però, che dimostra come le sue radici sovraniste e antieuropee – di cui ha dato prova lampante alla Camera irridendo il Manifesto di Ventotene – non gelino, anzi: ostilità all’idea di una difesa comune e sovranazionale, freddezza rispetto alle iniziative del motore “nucleare” europeo di Francia e Germania, rilancio del militarismo nazionale.

L’opposizione va nella direzione opposta e, almeno, un punto lo condivide: una integrazione europea sempre più stretta abbraccia tutti, dal Pd ai 5 Stelle, passando per centristi e sinistra. Lo sostengono i leader politici e lo approvano i rispettivi elettorati. Poi c’è altra posizione comune: l’opposizione non ha mai cantato le lodi a Putin, contrariamente a tutto il governo, Meloni inclusa, che omaggiò lo zar moscovita quando vinse le elezioni nel 2018 scrivendo che «la volontà del popolo in queste elezioni russe appare inequivocabile».

Per non dire dell’“amico Putin” di Berlusconi o delle magliette di Salvini. Le ambiguità e le contraddizioni in politica estera attraversano tutta la maggioranza, frastagliata come una costa irlandese.

I dolori dell’opposizione

Ma anche l’opposizione ha i suoi dolori: la faglia passa per il rifiuto del M5s a finanziare il riarmo dell’Ucraina perché lo considera(va) un ostacolo alla pace quando invece è la conditio sine qua non per arrivarci, altrimenti le truppe russe avrebbero vita facile nel conquistare tutto il paese. Inoltre, i 5 stelle rimangono ambigui sui fondi per il riarmo: mentre il Pd si oppone ad un finanziamento ai singoli stati ma chiede una difesa comune, i pentastellati sembrano orientati ad un no assoluto alla costruzione di un esercito europeo.

Su questo punto la testardamente unitaria Elly Schlein deve stanare Giuseppe Conte, altrimenti una intesa politica a largo raggio diventa molto, molto difficile. Peraltro, ci sono altri ambiti per attivarsi contro la deriva bellicista. Ad esempio, il governo intende svuotare la benemerita legge 185 del 1990 che, oltre a vietare «la fabbricazione, l'importazione, l'esportazione ed il transito di armi biologiche, chimiche e nucleari», impone anche la trasparenza sul commercio delle armi letali.

Il progetto governativo intende lasciare le decisioni in merito al solo esecutivo, senza alcun controllo parlamentare, cosicché l’opinione pubblica rimane all’oscuro di cosa passa in questo settore sensibile. Se si vuole aumentare la spesa militare – ed è giusto che si arrivi al 2 per cento perché i patti siglati dieci anni fa in ambito Nato si rispettano – almeno si segua l’esempio francese che ha convocato una tavolo con industriali, banche e assicurazioni per trovare lo strumento finanziario migliore atto a sostenere la spesa militare.

Alla luce del sole e con il coinvolgimento degli attori interessati. Le scelte di politica estera, e in particolare quelle che coinvolgono la dissuasione militare, sono troppo importanti per lasciarle scadere nelle polemiche partitiche e di corrente. Potrebbe essere l’occasione per varare, anche in Italia, una grande assemblea dei cittadini per discutere e approfondire il merito.

© Riproduzione riservata