Il New York Times di due giorni fa riportava questa dichiarazione del neo eletto Presidente, Joe Biden a commento della rifiuto di Donald Trump di concedere la sconfitta elettorale: «Sono fiducioso che egli sappia che non ha vinto, quel che sta facendo è oltraggioso: i messaggi lanciati al mondo sono incredibilmente dannosi al funzionamento della democrazia».  Negli Stati Uniti, la democrazia mostra la radicalità dei suoi fondamenti.

La regola aurea della democrazia è che la decisione su chi governa sia presa a maggioranza e per mezzo della conta di voti individuali e uguali.

La condizione è che chi perde accetti da quel momento di obbedire alle decisioni che prenderà chi ha vinto, e che chi ha vinto non revochi quelle regole ma accetti il rischio di perdere. 

La regola stabilisce l’alternanza al potere e consente nel modo meno dispendioso possibile di avere successione al governo senza instabilità. Un fatto che storicamente è stato difficilissimo da ottenere poiché chi ha potere vorrebbe non lasciarlo mai.

Non serve unanimità

La democrazia non riposa sul principio di unanimità (nel quale vale la regola della minoranza, in quanto basta un voto per bloccarla) ma su quello di maggioranza semplice, la condizione che consente alla parte maggiore anche per un solo voto di vincere la competizione, a patto che la sua vittoria segua regole condivise e pubblicamente accettate e applicate, e che, soprattutto sia una vittoria a scadenza. Nessuna maggioranza è ultima.

A questa condizione il dissenso tra le parti e tra i cittadini trova una soluzione temporanea di compromesso, per cui chi ha perso oggi non fa saltare il tavolo e chi ha vinto oggi non azzera le regole che determinano la temporaneita della sua vittoria. 

Sperare nel futuro è possibile perché e fino a quando il gioco politico non è ipotecato negli esiti. La pace civile riposa sul compromesso tra le parti perché riposa sulla certezza che il gioco resterà aperto.

La scienza politica del dopoguerra ha tradotto la politica delle regole del gioco in una teoria “minimalista” della democrazia. Che ci sia rappresentanza soddisfacente, che i governi si impegnino a correggere la diseguaglianza economica, tutto questo non rientra nella condizione formale o di minimalismo procedurale della democrazia. Anche perché, altrimenti, ben pochi sarebbero i paesi democratici. 

L’alternativa allo stato di natura

Il minimalismo è servito negli anni della guerra fredda ad estendere il campo dei paesi democratici.  Ha inoltre una base realistica che si presta a legittimare maggioranze socialdemocratiche con ragioni strumentali e una logica del conflitto che non è mai a somma zero.

Alla radice di questa concezione della democrazia vi è il terrore dello stato di natura di Thomas Hobbes. Per scongiurare il quale, tutti si convincono della convenienza ad accettare regole sulla successione al potere fondate su un metodo certo come è quello aritmetico. 

Dal calcolo vincente dei costi e dei benefici associati al compromesso tra chi vince e chi perde discende la forza della democrazia elettorale, che ha risolto in maniera egregia il problema di Hobbes tenendo insieme pace civile e libertà politica. 

Trump mette in seria discussione questa elegante e parsimoniosa teoria.  Mostra che la democrazia minima è in effetti come la punta di un iceberg che riposa proprio su quelle condizioni “esterne” alla regola aurea e senza le quali questa regola non starebbe in piedi.

Il minimalismo presume la convinzione si tutti, futuri avversari e amici, di essere parte dello stesso gioco perché uguali in qualche cosa di irrinunciabile: il potere di cittadinanza. 

Sapere che si è diversi in tante cose e però uguali in quella più importante ai fini della stabilità delle regole del gioco: uguali nella dignità di considerazione e quindi amici prima di diventare avversari. Si tratta come sappiamo di una condizione impalpabile di fiducia (mai di fede cieca e senza condizioni) che nessun calcolo aritmetico può misurare, e che se viene a mancare può vanificare la certezza del conteggio.

Trump ha in questi anni operato quotidianamente per erodere questa fiducia, per gettare dubbi che l’aritmetica sia davvero neutrale e oggettiva, per seminare l’opinione pubblica di scetticismo verso l’esito elettorale nel caso di una sua confitta (da mesi stava twittando che una sua sconfitta sarebbe stata un falso, un furto).

La fine del “noi politico”

 Alla base di questa strategia di erosione del senso di legittimità nella regola aurea vi è la rottura del “noi politico” senza il quale nessuna regola del gioco tiene – la condizione di amicizia civile prima di ogni contesa e competizione.  Minima all’apparenza, la regola aurea della democrazia presume un sostrato massimo che, se e quando eroso o incrinato, nessuna regola del gioco può ristabilire.

Tocca alla politica, alla capacità e al carattere dei politici e dei partiti, alla “virtù” politica della prudenza e della saggezza di chi ha vinto mettere in campo la capacità di prendere decisioni che riescano a riconquistare i cittadini alla fiducia di base. Le regole del gioco sono deboli senza le virtù della politica.

Dipenderà quindi dall’amministrazione Biden riuscire a neutralizzare la propaganda trumpista (che continuerà micidiale) riconquistando il pubblico alla fiducia nel patto fondamentale, quello che rende possibile il buon funzionamento della regola aurea.

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